Mar. 31st, 2019

lancethewolf: anatra col guscio da tartaruga (Default)

Titolo: “Un fine settimana rilassante”

Cow-t 9, settima settimana, M2.
Missione: “Struttura Ciclica”
Numero parole: 972
Rating: Verde
Fandom: Voltron: Legendary Defender

Introduzione: [La storia non prende in considerazione gli eventi dell’8° stagione] Lance pensa che ai suoi amici faccia bene staccare un po’ la spina, ma il suo intento di farli rilassare gli sfugge un pochino di mano. Una campeggio in montagna si tramuta così in una sfida e lui ed Hunk sono gli avversari da battere.
Genere: Comico
Personaggi: Lance, Hunk
Avvertimenti: nessuno

 

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Lance voleva un fine settimana rilassante per lui e i suoi amici.

Da quando erano tornati sulla terra si erano dedicati esclusivamente a rimettere a postole le cose, non si erano fermati neanche sconfitto il nemico, anzi appena guariti dalle ferite della battaglia si erano rimessi all’opera con più determinazione di prima e anche lui non si era certo risparmiato. Seppure questo, però, fosse stato tutto molto lodevole, i segni della stanchezza e del nervosismo si erano fatti sempre più evidenti sui loro volti e noi loro atteggiamenti: dovevano staccare per un po’, anche poche ore sarebbero bastate, ma dovevano staccare la spina o ne sarebbe andata della loro sanità mentale.

 

Dopo diversi tentativi, Lance era riuscito a convincere i suoi amici ad andare in campeggio.

Non un campeggio come gli altri, ma una vera e propria prova di sopravvivenza o almeno così l’aveva fatta sembrare. Aveva dovuto per forza metterla su quel piano, perché altrimenti trascinare Keith e Shiro sarebbe stato praticamente impossibile.

“Ammetti che non vuoi partecipare, Mullet, perché sai di non avere nessuna possibilità. Non puoi vincere contro di me, non quando gioco in casa”, questo aveva detto a Keith e la discussione che ne era seguita, per una volta, era stata musica per le sue orecchie.

Senza che se ne rendesse conto, l’attuale Paladino Nero, ci era cascato e il resto era venuto da sé.

 

La sfida?

Avrebbero gareggiato a coppie. Lui ed Hunk, Pidge ed Allura e naturalmente Keith e Shiro.

Avrebbe vinto la coppia che sarebbe arrivata alla mattina di lunedì senza aver tentato di tornare prima a quelli che riteneva i suoi doveri.

 

Lance era convinto che il tutto si sarebbe risolto con passeggiate all’aria aperta, chiacchierate intorno al fuoco, qualche canzone e, ovviamente, marshmallow. Tanti marshmallow!

Spezzare un po’ la routine avrebbe giovato a tutti, a lui per primo, ma purtroppo i suoi amici erano da sempre competitivi, troppo competitivi, e quello che il ragazzo sperava potesse essere un fine settimana da passare insieme piacevolmente era diventata una gita a due.

 

Per prima cosa, contrariamente alle sue aspettative, ogni coppia si era separata dalle altre assecondando l’idea di Allura di estrarre a sorte il luogo dove mettere le loro tende, tanto per rendere la cosa più frizzante.

A lui era Toccato un bel rettangolino di radura nel bosco poco distante dal fiume.

 

Non erano esattamente quelli i suoi piani, diciamo che non lo erano per nulla, ma almeno erano tutti in quel parco, lontani dai loro doveri e, cosa più importante, c’era Hunk con lui.

Se esistevano due persone in tutto l’universo che andavano perfettamente d’accordo e si capivano al volo, Lance ne era certo, quelle erano senza ombra di dubbio lui e il suo grande amico Hunk.

 

Malgrado questo però, avrebbe dovuto avere sentore che le cose non sarebbero andate esattamente come desiderava da quando Pidge, mentre lui illustrava la sua idea, aveva chiesto: “È una competizione, giusto, e in una competizione è tutto lecito?”

“Beh, non proprio tutto”, aveva risposto lui, sottovalutando la cosa, “è una sfida amichevole, nessuno si deve fare male!”

Aveva creduto che quella semplice spiegazione potesse bastare, ma non aveva tenuto conto di quali ignobile nefandezze fossero disposti a fare i suoi compagni pur di vincere e il primo bene essenziale per la sopravvivenza in campeggio a pagare le conseguenze di quella sua svista furono i marshmallow.

Spariti, senza lasciare alcuna traccia dietro di loro, nel tragitto dalla Jeep al campo, ne era sicuro.

 

Il cuore di Lance ancora piangeva intimamente quella terribile perdita: quarantotto ore senza marshmallow da arrostire sul fuoco era qualcosa di impensabile, ma avrebbe resistito, era finalmente riuscito a portare i suoi amici in quel bosco per un fine settimana rilassante e l’avrebbero avuta anche a costo di perdere il secondo bene essenziale del vero campeggiatore: le bibite gassate.

E… le persero, accidenti!

Esattamente due ore dopo aver posizionato la tenda.

Lance non aveva visto nessuno avvicinarsi questo a riprova che, quando volevano, i suoi amici sapessero essere dei veri e propri Ninja.

 

“Uhm… piccole impronte!” aveva dedotto, osservando un’orma lasciata nel fango accanto al fiume. Avrebbe indagato oltre non fosse che la voce di Hunk, accompagnata dall’odore di wurstel arrostiti al fuoco (terzo bene essenziale), lo avesse richiamato all’attenti.

 

Il dopo cena era andato alla grande, i racconti dei campeggi passati di Hunk erano stati spassosi quanto i suoi ed erano entrati in tenda per dormire che si era fatta una certa ora ormai.

Lance si era destato però qualche ora dopo: era ancora notte fonda, eppure qualcosa davanti ai suoi occhi lo turbava terribilmente. Aveva battuto un paio di volte le palpebre, nel tentativo di riuscire a capire bene cosa fosse, ma, ancora poco convinto, aveva deciso di svegliare Hunk che dormiva accanto a lui.

Aveva dato così di gomito all’amico, fintanto questi non aveva aperto gli occhi. “Hunk, non volevo svegliarti, ma… vedi il cielo?”

Hunk, ancora assonnato, si era stropicciato gli occhi per bene, prima di guardare in alto, fisso davanti a sé. “Sì ed è tempestato da miriadi di stelle.”

“E… questo cosa ti fa pensare?”

“Dal punto di vista astronomico, mi dice che ci sono milioni di galassie e miliardi di pianeti. Dal punto di vista astrologico, osservo che Saturno è nella costellazione del Leone. Dal punto di vista temporale, deduco che sono circa le quattro e mezza del mattino. Dal punto di vista filosofico, posso sostenere di sentirmi piccolo ed insignificante rispetto a tutta questa immensità. Dal punto di vista metereologico, è facile presumere che domani possa essere una bella giornata. Tu invece Lance cosa ne pensi?”

“Cavolo, Hunk, penso che ci hanno fregato la tenda!”

 

Lance voleva un fine settimana rilassante per lui e i suoi amici (malgrado si fossero rivelati dei malefici gremlins assetati di prevalere) e l’avrebbe avuta, anche a costo di dormire all’agghiaccio.

 

Zuccona

Mar. 31st, 2019 07:06 pm
lancethewolf: anatra col guscio da tartaruga (Default)

Titolo: Zuccona

Cow-t 9, settima settimana, M2.
Missione: “Struttura Ciclica”
Numero parole: 3527
Rating: Verde
Fandom: Miraculous - Le storie di Ladybug e Chat Noir

Introduzione: Zuccona attacca Parigi e Alya viene a conoscenza di verità impensabili sulla sua amica del cuore.
Genere: Avventura, supereroistico
Coppia: accenno alla Chat Noir (Adrien)/Ladybug (Marinette)
Avvertimenti: Spoiler (2° stagione)

 

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“È forse un male?” Disse Marinette, sollevando appena lo sguardo su Alya.

La ragazza rimase senza parole: possibile che fosse davvero quello che sembrava? Possibile che la sua amica Marinette avesse rinunciato del tutto al bel Adrien?

Si appoggiò pesantemente contro il cofano della macchina cappottata che lei, Marinette e Queen Bee stavano usando come riparo, mentre Chat Noir combatteva contro il super cattivo di turno. Probabilmente era tutto fuorché il momento giusto, ma aveva bisogno di fare mente locale. Non sapeva se esserne felice o meno, aveva parlato con Marinette proprio quella stessa sera e, se quella era la sua idea per tirare su il morare a Chat Noir, le sembrava fosse decisamente più rischioso e complicato di quanto l’amica avesse pianificato.

“Calma Alya.” Si disse, gettando uno sguardo sul gatto nero che roteava il suo bastone respingendo così i colpi del nemico. “Una cosa per volta. Procediamo a piccoli passi e il primo è capire cosa aspettarci adesso da Ladybug e cosa fare, dopo penseremo a Marinette e al suo improvvisato e affasciante gattone.”

Non ebbe però troppo tempo per pensarci: Chat Noir piombò tra lei e Marinette.

 

“Coprimi le spalle, Regina” disse il supereroe alla compagna di lotta, afferrando lei e la sua amica per la vita e sollevandole di peso, prima di balzare a diversi metri di distanza.

Un colpo da parte del nemico, più potente di altri, face l’letteralmente a pezzi quello che fino a quel momento era stato il loro riparo.

“Poi contarci, Chat Noir, ma sbrigati, il mio Miraculous ha i minuti contati”. Chloè, alias Queen Bee era scattata a coprire la loro fuga, deviando con il vorticare del filo della sua trottola parte dell’esplosione.

“Appena in tempo. Speriamo che Ladybug arrivi presto!” Si lasciò sfuggire il gatto nero, apparentemente pensieroso. “Voi due signorine, rimanete qui, il tempo di aiutare Queen Bee con questa grossa zucca lancia semi esplosivi che sarò nuovamente da voi.”

“Fai con comodo, micetto, ti aspettiamo!” rispose Marinette con un tono e un sorriso decisamente troppo solari, data la situazione nella quale si trovavano.

Chat Noir si attardò per un baciamano. “Mi raccomando fai la brava, Fiorellino, non metterti nei guai in mia assenza”, la voce dell’eroe si era fatta morbida e dolce, mentre i suoi occhi erano inchiodati in quelli di Marinette, come se quel momento tra loro due fosse al di fuori del tempo e assolutamente indifferente al suono delle esplosioni che imperversavano su Parigi.

 

Possibile?” tuonò ancora nella mente di Alya. “Possibile che Marinette abbia davvero fatto il passo più lungo della gamba?

Alya aveva la netta sensazione che tutta quella storia fosse sfuggita di mano alla sua amica e che adesso Marinette si trovasse invischiata in qualcosa di terribilmente sfacciato, attraente ed eroico.

Più che qualcosa, qualcuno in effetti, qualcuno che, oltretutto, stava maledettamente bene in pelle nera.

 

Una nuova esplosione fece letteralmente sgretolare la piramide di vetro del Louvre, poco distante dal loro nascondiglio, distraendola ulteriormente dai suoi pensieri e costringendo sia lei che l’amica al suo fianco a richiudersi istintivamente su loro stesse.

 

“Alya”, la chiamò Marinette, sollevandosi dopo quel boato e sbirciando nella sua borsetta, ritrovando assurdamente il sorriso. “Mi è venuta un idea per aiutare Chat Noir e Queen Bee, ma devo andare…”

“Marinette, hai sentito, Chat Noir…”

“Sì, ma sono in difficoltà, non possono farcela da soli e Ladybug ancora non si vede.”

Marinette scattò in avanti, Alya si protese per afferrala.

“Ma Marin…” una nuova esplosione la fece sobbalzare, permettendo alla sua migliore amica di allontanarsi.

Sempre la solita Marinette, sempre pronta a dare una mano, anche a costo di farsi del male, muovendosi tra le vie di Parigi durante l’attacco di uno dei super cattivi di Papillon.

Sospirò rassegnata, portando di nuovo lo sguardo ai due supereroi che combattevano.

Ah, quanto avrebbe voluto in quel momento vestire i panni di Volpe Rossa, ma Ladybug sapeva cosa faceva e se non aveva scelto lei per quella missione questo voleva solo dire che non era la supereroina più adatta in quel frangente e Alya si fidava cecamente della paladina di Parigi e delle sue decisioni.

 

A proposito di Ladybug”, anche lei si era comportata in modo strano, non solo Marinette, diverso dal solito. Era stata terribilmente aggressiva e arrabbiata, Alya non avrebbe saputo come altro definirla.

L’unico modo per capirci davvero qualcosa è ripartire dal punto in cui tutto è incominciato”, ragionò la ragazza.

 

Alya si trovava a casa di Marinette quella sera quando era arrivato Chat Noir.

La sua amica si era sbrigata ad informare il supereroe della sua presenza e ad Alya era sembrato che cercasse di evitare che lui potesse dire o fare qualcosa di cui entrambi si sarebbero potuti pentire.

La cosa l’aveva insospettita, senza contare che si era domandata, e si domanda tuttora, cosa fosse andato a fare Chat Noir da Marinette.

Stano, tutto molto, molto strano.

 

Il Gatto Nero dopo averla salutata aveva raffazzonato scuse, dicendo che era passato solamente per vedere come stesse Marinette, aveva salutato poi e si era dileguato alla stessa velocità con la quale era apparso.

Alya non ricordava che Marinette avesse avuto qualche malessere o si fosse fatta male in qualche modo e, anche se fosse stato, come faceva a saperlo Chat Noir?

Si era quindi rivolta all’amica e aveva cominciato a bersagliarla di domande, alle quali questa aveva risposto mettendo insieme frasi per lo più senza senso, ma finendo col dire che Ladybug non si stava comportando affatto bene con Chat Noir.

Anche quel concetto sarebbe potuto passare inascoltato insieme a tutte le altre sciocchezze borbottate da Marinette, non fosse che nell’esprimerlo si fosse scurita in volto, mostrando uno sguardo davvero molto triste.

A quel punto Alya aveva deciso che doveva smettere di domandare e ascoltare cosa avesse da dirle l’amica.

“Sai, Alya, quel gattone non è poi tanto male come sembra. È gentile e… vorrei tanto che si dimenticasse di lei.”

Il sospiro di Marinette che aveva accompagnato quelle parole l’aveva indotta a ironizzare, dandole di spalla: “Uhm… qui sembra che una certa moretta si stia dimenticando del suo adorato Adrien?”

Alya, aveva sperato che così facendo, scherzandoci un po’ sopra, avrebbe alleggerito la situazione, ma Marinette, nel minuto immediatamente successivo, l’aveva spiazzata.

“E…” le aveva detto titubante con la voce ridotta a un sussurro e con lo sguardo basso, “…se fosse davvero così?”

“Marinette…” Alya era rimasta senza parole, era riuscita solo a chiamare il suo nome, mentre aveva visto quegli occhi blu rattristarsi sempre di più.

“Io, non penso che…” aveva provato ad accennare, ma non era realmente sicura di sapere cosa pensare, desiderava tanto tirare su il morale alla sua amica, ma non sembrava esserci riuscita un granché.

Non tanto per la mancanza di parole, a dire il vero, ma per l’arrivo di quel primo enorme boato: Papillon aveva Akumizzato l’ennesimo malcapitato.

 

Alya era giunta sul luogo dello scontro, con l’intento di filmare quanto avveniva, in tempo per vedere Ladybug arrivare in aiuto di Chat Noir che si trovava già sul posto.

Quell’esplosione non era troppo distante dalla casa di Marinette e Il Gatto, infondo, si era allontanato solo da pochi minuti.

“È la signora del banco della frutta”, aveva informato Chat Noir.

“Hai un’idea su cosa può essere successo?” domandò l’eroina.

Il Gatto dissentì. “So solo che è troppo veloce e che è troppo difficile avvicinarsi mentre lancia quei semi.”

 

La battaglia si era susseguita a colpi di liane ed esplosioni da parte del mostro a forma di Zucca ed a rapide schivate e parate da parte dei due supereroi di Parigi, che sembravano non riuscire davvero ad avvicinarsi al loro obbiettivo.

“Non ti hanno avvisato che Halloween è già passato?” aveva commentato Chat Noir costretto ad abbarbicarsi su un comignolo pur di evitare l’ennesima frustata, mentre Ladybug approfittando della distrazione della Zucca era riuscita a lanciarsi, appesa al suo fidato Yo-Yo, ed a colpire il bersaglio con un calcio dritto nel mezzo all’enorme testone arancione.

Per qualche attimo, il mostro aveva barcollato e la sua intera figura era sembrata instabile, Alya non avrebbe saputo trovare un altro termine per definirla: era stata come percorsa tra un fremito e in quel tremare aveva perso parte della sua massa che era caduta in terra sotto dorma di frutta e verdura, e da quell’istante, seppur di poco, era sembrata più piccola.

“Ci serve un’idea, insettina?” aveva aggiunto ancora Il Gatto. “Sembra, comunque, avere difficoltà a ripararsi dalle tue acrobazie aeree, se distratta.”

“Ho notato. Oltretutto, sembra diventare più piccola quando viene colpita”, aveva constatato

La Coccinella raggiungendo Chat Noir.

“Quindi che si fa?”

A quella domanda Ladybug aveva sorriso sicura e, lanciando verso l’alto il suo Yo-Yo, aveva invocato il suo Lucky charm, ritrovandosi poco dopo tra le mani quella che sembrava una trottola.

“Sai già cosa farci?” aveva chiesto Il Gatto e dopo qualche secondo di perplessità il viso dell’eroina della città si era illuminato.

“Direi… che ci sta dicendo che abbiamo bisogno d’aiuto.” Il tempo di formulare quella frase che Zuccona aveva costretto i due eroi a dividersi, bersagliandoli con una pioggia di semi esplosivi.

“Ce la fai a resistere senza di me, Gattino?” aveva domandato poi Ladybug.

“Non lo sai che i gatti hanno nove vite?”

A quel dire La Coccinella si era allontanata, facendosi trascinare dalla sua fune tra i tetti di Parigi.

 

Poi era cominciato il brutto, non che fino a quel momento lo scenario fosse dei migliori, ma ad un certo punto quell’enorme zucca aveva smesso di lanciare semi esplosivi, o per meglio dire, aveva smesso di lanciare semi che esplodevano, perché a lanciare semi li lanciava, ma contrariamente agli altri questi affondavano nel terreno per poi emergere come rampicanti viventi: attaccati al suolo, ma in grado di avvolgere e frustare chiunque fosse a loro portata, compresa Alya.

 

Chat Noir aveva colpito appena in tempo il tentacolo verde che si era lanciato contro di lei, urlandole di fuggire e alla svelta, per poi però finire lui intrappolato tra i tentacoli del vegetale.

Quella maledetta pianta aveva stretto il supereroe in una morsa straziante al punto da fargli mancare il fiato, mentre a occhi sgranati digrignava i denti pur di resistere al dolore. Un rivolo di sangue era colato dalle labbra del Gatto, fino al collo, mentre aveva tentato di richiamare il suo Cataclisma, ma inutilmente.

Viticci più sottili erano serpeggiati fino alla mano di Chat Noir con l’intento a portargli via il suo Miraculous.

 

Alya si era sentita morire, Chat Noir era in quello sto per colpa sua, per averla salvata. Era scoppiata a piangere disperata, ma proprio in quell’istante.

Lascialo andare!” il grido di Ladybug era risuonato furioso tra le vie di Parigi tanto da azzittire il fastidioso frusciare delle liane che strisciavano sul terreno. 

Zuccona e le sue creature si voltarono verso La Coccinella in picchiata e con lo sguardo che non prometteva nulla di buono.

 

Ladybug si era trovata a schivare una nuova pioggia di semi esplosivi, non riuscendo a raggiungere l’obiettivo, ma era proprio quello il suo obbiettivo? Anche se forse sarebbe stato più corretto dire il loro.

Queen Bee, in contemporanea, si era lanciata dal lato opposto da dove era giunta Ladybug e aveva scagliato la sua trottola, avvolgendo la base delle radici che imprigionavano Chat Noir. Era stato un secondo, non di più: quei tentacoli erano stati letteralmente affettati dal filo lanciato dall’eroina e Il Gatto era stato liberato.

 

“Come va, Chat Noir?” aveva domandato l’Ape Regina.

“Decisamente meglio, ora che siete qui!” Aveva risposto con un ghigno, ripulendosi le labbra dal sangue versato.

Ad Alya, però, non era sfuggita l’espressione dolorante e la mano che l’eroe si era portato al fianco, malgrado quel solito sorriso beffardo dipinto sul volto.

 

Con l’arrivo dell’Ape la situazione era migliorata decisamente: Chat Noir distraeva il nemico, mentre le due artiste della corda aerea si alternavano con attacchi repentini riuscendo così a raggiungere il bersaglio.

Quel mostro era diventato sempre più piccolo dopo ogni attacco, fino ad arrivare a lasciar scorgere parti della donna avvolta in quella bizzarra armatura di verdure fuse tra loro.

 

“Ci siamo quasi, un ultimo sforzo” aveva richiesto Ladybug con un sorriso, accovacciandosi accanto al Gatto Nero rannicchiato su un tetto e ansimante per il perpetrarsi del combattimento.

Questi le aveva annuito per rilanciarsi nella mischia, proprio quando gli orecchini di Ladybug avevano cominciato a tintinnare l’ultimo minuto di trasformazione che le era rimasto.

“Devo andare”, era stata costretta ad annunciare a quel punto, con il dispiacere nel cuore.

“Fai in fretta!” le aveva gridato Queen Bee, mentre Chat Noir le annuiva confortante, assestando un nuovo colpo ad un tentacolo che, staccato dalla pianta svaniva letteralmente nel nulla.

 

“Com’è andata, poi?” continuò a riflettere Alya.

 

Il combattimento si era spostato verso il Louvre e lei era stata costretta a seguirlo per necessità di schivare quei maledetti rampicanti, non per volontà. Era accaduto in quella sua marcia forzata che si era scontrata, letteralmente, con Marinette.

Il suo “Cosa ci fai tu qui?” era stato accantonato con un “Attenta!” dell’amica che l’aveva spinta di lato per evitarle di essere investita dalla furia dell’ennesima frusta vegetale. Successivamente si erano lanciate di corsa verso uno spazio ancora libero dai rampicanti in modo da non ritrovarsi ad essere un complicazione nella lotta dei paladini di Parigi.

Avevano corso veloce, ma purtroppo però non veloce quanto realmente serviva.

 

Uno dei viticci di quelle piante malefiche era riuscito ad avvinghiarsi alla gamba di Marinette, mentre per l’ennesima volta scostava Alya di lato per evitarle di essere colpita.

 

La trottola di Queen Bee era arrivata rapida ad avvolgere la liana, mentre, con un balzo, Chat Noir era arrivato accanto alle due ragazze ed afferratele le aveva portate al riparo dietro una grossa automobile rovesciata.

 

“Marinette, ma cosa ci fai qui?” aveva chiesto il gatto alla sua amica, non appena le aveva riposate entrambe con i piedi in terra.

“Io… stavo tentando di fuggire dai rampicanti e…” aveva cercato di spiegare Marinette, mentre Zuccona, ora che gli attacchi si erano in parte placati, aveva cominciato a recuperare massa e mole.

Maledizione!” era arrivata la voce di Queen Bee, e tutta Queen Bee, a cercare anche lei riparo accanto a loro, nel mentre diversi semi esplosivi erano detonati contro la carrozzeria di quella povera vettura.

 

“A quanto sembra”, aveva detto Marinette, “più piccola è Zuccona, meno potenti sono i suoi colpi.”

“Già, ma se ti prendono fanno comunque male!” aveva risposto, ostentando tranquillità Queen Bee.

Alya aveva intuito che l’eroina, malgrado il suo solito fare scostante, non era realmente serena come aveva voluto dare a vedere fino a quel momento, ma questa non era stata l’unica cosa che la ragazza aveva notato. Quello che aveva catturato il suo sguardo era stato il braccio di Chat Noir che non aveva abbandonato ancora il fianco di Marinette.

 

La cosa non sembrava essere sfuggita neanche a Chloè dato che dopo uno sguardo ai due aveva soffiato stizzita: “Questa poi?”

Già, questa poi?” aveva ripetuto anche Alya nella sua testa e davvero una cosa del genere non se la sarebbe mai aspettata; come non si era aspettata lo sguardo che Il Gatto rivolgeva ancora alla sua migliore amica e la carezza che questa posò sul volto ferito dell’eroe.

“Tutto bene?” aveva detto Marinette con una preoccupazione che Alya non aveva mai scorto prima d’allora negli atteggiamenti della ragazza.

Le dita di Marinette avevano accarezzato lo zigomo livido fino ad arrivare a sfiorare il labbro spaccato con delicatezza come se avesse temuto di potergli fare più male di quanto gliene fosse già stato fatto.

Chat Noir, dal canto suo, aveva piegato il volto verso quella carezza, appena, ma sufficiente per permettergli di baciarle il palmo.

“Sono solo un po’ ammaccato, Fiorellino”, aveva risposto lui senza schiodare gli occhi da quelli di Marinette.

“Tz!” aveva sbuffato nuovamente Queen Bee. “Appena tornerà Ladybug sistemerà tutto con il suo Lucky charm e anche il Gattastro tornerà nuovo come prima e vi potrete andare a sbaciucchiare dove meglio credete. Ma adesso, che ne dite di smetterla di guardarvi come due piccioncini innamorati e di tornare a dare attenzione a questa zuppa di verdure ambulante?”

 

Il rossore era arrivato immediatamente a colorare le guance di Marinette.

Alya non era riuscita a credere ai suoi occhi: Marinette, la sua amica Marinette stava davvero arrossendo per le allusioni di quella arpia di Chloè?

 

Le parole di Queen Bee erano arrivate tempestive come l’ennesima mitragliata di semi da parte della zucca; mitragliata, questa volta, decisamente più potente.

 

“Sta riacquistando forza, non possiamo permetterlo!” era giunto il commento di Chat Noir che, sollevandosi e strizzando un occhio a Marinette, si era lanciato tra il fumo delle esplosioni pronto di nuovo a dar battaglia.

Queen Bee aveva annuito. “Così si fa, gattino, ma non credere di rubarmi la scena, sono io la Regina”, aveva detto e rapida, come si era gettata dietro quell’automobile, aveva scagliato la sua arma tra i tetti per lanciarsi al volo nel vivo della lotta.

 

Alya aveva visto Marinette cercare tra i vapori delle esplosioni i due combattenti, ma l’unica cosa che era potuto scorgere in quegli istanti erano sagome scure e tentacoli in lotta tra loro.

Quando quella coltre scura aveva cominciato a dipanarsi, Alya era riuscita finalmente a vedere i due supereroi.

 

Attenta!” Chat Noir con una spallata aveva allontanato l’Ape Regina dalla traiettoria del mostro, rimanendone però avvinghiato nei tentacoli.

Le mani di Marinette si erano strette a pugno a quella scena. Un fremito lungo la schiena aveva suggerito ad Alya che l’amica fosse stata sul punto di lanciarsi a soccorrere quel Gattino, a costo di usare solo denti e unghie pur di farlo.

 

“Questa zucca comincia davvero ad irritarmi!” aveva protestato Queen Bee e, prima che Marinette avesse potuto fare qualunque cosa, aveva colpito quel tentacolo, come aveva già fatto con altri prima, per distruggerlo. Quello però non solo non si era staccato, ma aveva avvolto con forza maggiore il Gatto Nero nelle sue spire.

“Ma cosa…? Maledizione!” aveva ringhiato Chloè più irritata che mai.

A quanto sembrava i tentacoli di Zuccona erano più resistenti di quelli delle sue creature, ma non sufficientemente da far desistere l’Ape dai suoi intenti.

Veleno!” aveva dichiarato a quel punto, infilzando il suo pungiglione paralizzante nel groviglio di liane che stritolava il Gatto.

Quei tentacoli erano parsi perdere istantaneamente vitalità, sciogliendosi privi di energia e cadendo in terra.

“A quanto sembra non è la tua giornata fortunata, Chat Noir?” aveva commentato Chloè, stranamente gentile. “Resisti ancora un po’, Ladybug ritornerà presto, vedrai?”

“Non ne sarei troppo sicuro”, aveva risposto il supereroe, asciugandosi con un braccio il sudore dalla fronte e riprendendo fiato. “Il suo Kwami ha bisogno di tempo per riprendersi e ritramutarla.”

“Beh, tu vedi di non mollarmi prima che arriv…” Le parole di Queen Bee erano state troncate dall’arrivo di una nuova tentacolata che, come una frusta, li aveva investiti e scaraventati a lunga distanza.

 

“Com’è possibile?” aveva detto allibita la Regina, sollevandosi dalle macerie del muro contro il quale erano stati lanciati. “Non dovrebbe muoversi, ho usato il mio Veleno.”

“Guarda!” Chat Noir, barcollando per riprendere equilibrio nel sollevarsi a sua volta, le aveva indicato il tentacolo avvelenato, digrignando i denti dalla rabbia.

 

Anche gli occhi di Alya si erano mossi nella medesima direzione: le creature generate da Zuccone avevano troncato la liana colpita dal pungiglione di Queen Bee, che era caduta in terra, sgretolandosi in una miriade di frutti e ortaggi, liberando così quel super cattivo dall’incantesimo dell’Ape Regina.

Il mostro aveva ripreso immediatamente ad attaccare per non dar loro un attimo di respiro.

 

Lo sguardo della ragazza era sgranato e incredulo, mentre quella Zucca stava preparandosi a lanciare nuovamente i suoi semi.

Un nugolo scuro si sollevò verso il cielo per poi ripiegare verso il basso, verso… Loro due?

Lei e Marinette, perché?

 

Fortunatamente i due supereroi non si fregiavano di questo titolo a sbaffo: rapidamente Queen Bee si era lanciata, tornando accanto a loro, roteando il filo della sua trottola sopra le loro teste.

I dardi esplosivi di Zuccona avevano esaurito la loro potenza contro quello scudo rotante, mentre Chat Noir, approfittando di quella distrazione del mostro, allungando la sua asta, era riuscito a colpire quella sua grossa testa arancione.

Zuccona era stata così spedita indietro di diversi metri, perdendo tanti di quei vegetali dal suo corpo da scatenare sul volto del Gattone un ghigno soddisfatto.

“Questo e per aver attaccato le mie amiche”, aveva minacciato.

 

Amiche è questo!” aveva pensato Alya, quel mostro aveva capito che Chat Noir e Queen Bee non avrebbero mai permesso che accadesse loro qualcosa.

 

“Sì, certo, amiche!” aveva commentato sarcastica Chloè, lasciando scivolare lo sguardo su Marinette con un ghigno saputo, prima di tornare al compagno di lotta. “Dimmi un po’, Micione da quando ti sbaciucchi con questa Antipatica?”  

“Da quando ti interessa cosa faccio con la mia ragazza, Queen Bee?” Aveva risposto Chat Noir con un sorriso divertito e senza nessuna incertezza, bloccando con colpi precisi una serie di tentacoli diretti verso l’automobile.

 

Alya, si era voltata istintivamente verso Marinette, intenta a guardare chissà cosa nella sua borsa. “Ragazza? Quindi… state insieme? Tu e Chat Noir?

 “È forse un male?” Era stata a quel punto la sua risposta.

Fratelli

Mar. 31st, 2019 07:12 pm
lancethewolf: anatra col guscio da tartaruga (Default)

Titolo: Fratelli

Cow-t 9, settima settimana, M5.
Prompt: “Spirito”
Numero parole: 3260
Rating: Verde
Fandom: The Legend of Korra

Introduzione: Rohan non capisce perché debba starsene seduto meditare tutta la mattina.
Genere: Generale, Slice of Life
Personaggi: Ikki, Jinora, Meelo, Rohan, Tenzin.
Avvertimenti: nessuno

 

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Era una bella giornata, veramente una gran bella giornata, una di quelle in cui scappare per correre a piedi nudi sull’erba fino alla spiaggia, per poi gettarsi in mare. Questo pensava Rohan, sbirciando con un occhio solo il lido dell’Isola dell’Aria, dall’alto della veranda a pagoda che il padre aveva adibito a luogo di meditazione per lui e gli altri Erranti dell’Aria.

 

“Rohan, concentrati”, giunse il primo richiamo del padre che lo portò a richiudere quel suo unico occhio aperto.

 

I raggi di sole che arrivavano fin sotto il pergolato e accarezzavano le gambe del piccolo monaco erano caldi e piacevoli e una brezza leggera, passando attraverso il boschetto di conifere, portava con sé il profumo della resina rubato agli alberi più giovani.

Rohan si lasciò sfuggire un sospiro.

 

“Rohan”, ed ecco un nuovo richiamo.

 

Chiudere gli occhi non era servito a molto. Tutto in quella giornata sembrava lo chiamasse, dal cinguettare degli uccellini allo squittire dei lemuri dell’aria dalla coda anellata che li osservavano curiosi dagli alberi più alti del giardino e che si affacciavano a lato di quella veranda.

Al bambino venivano in mente mille cose da poter fare, sicuramente più divertenti che stare lì, seduto composto accanto ai suoi fratelli a cercare di non pensare a nulla, quando invece fantasticare era la cosa più bella del mondo, dopo correre a perdifiato, respirare a pieni polmoni l’aria mattutina, bighellonare e giocare.

 

Sbuffò quasi senza accorgersene e “Rohan, riesci a stare concentrato almeno per un secondo?” arrivò alle sue orecchie, più dura delle volte precedenti la voce del padre.

 

“Ma papà”, aprì gli occhi, voltandosi verso il genitore, nel tentativo di spiegare le sue ragioni.

“Che devo fare con te? Guarda i tuoi fratelli, dovresti prendere esempio da loro”, rincarò Tenzin portando stancamente le dita a stringere la base del naso.

“Beh, scusami se non ho la testa vuota come loro”, sfuggì alle sue labbra senza che quasi se ne accorgersene.

Rohan!” Il padre lo guardò con disapprovazione.

A quel nuovo richiamo, più alto degli altri, i suoi fratelli e il resto dei monaci si voltarono verso di lui.

 

Il bambino non voleva davvero offendere nessuno, ma quell’atteggiamento del padre e gli occhi accusatori con i quali lo stava guardando in quel momento gli avevano fatto, e gli stavano continuando a far perdere la pazienza e saltare i nervi.

 

Rohan, Rohan, Rohan, sempre Rohan”, urlò scattando in piedi. Le gote in fiamme per la rabbia e per gli sguardi che sentiva puntati su di lui. “Sai che c’è papà? Non sono perfetto come i miei fratelli. Sono solo quello che vedi: una terribile delusione. Una totale perdita di tempo, tanto vale che mi lasci stare.”

 

“Ma Roh…” Tenzin non terminò la sua frase; il bambino si era voltato ed era fuggito via prima che potesse fare qualunque cosa, rimase così imbambolato, immobile per alcuni secondi.

 

Un vociare sommesso cominciò a dilagare tra i presenti, più o meno sconvolti dall’acaduto.

 

L’espressione di Tenzin si fece d’un tratto più severa, cominciando a camminare nella direzione verso la quale era fuggito il figlio.

“Continuate con la meditazione”, disse ai suoi allievi, arrivato ai gradini del patio.

Una mano sulla spalla però lo costrinse a frenarsi e voltandosi, trovò ad attendere il suo sguardo gli occhi castani di sua figlia maggiore.

Jinora lo guardava con dolcezza e con un sorriso rassicurante sul viso, dietro di lei anche Ikki e Meelo sorridevano seppur con la loro solita e indomita strafottenza.

 

“Lascia fare a noi”, gli disse la ragazza.

“Parlo per esperienza, papà, se ti dico”, intervenne Meelo, puntandosi un pugno contro un fianco e assumendo un’aria saccente, “che in questo momento sei l’ultima persona che ascolterebbe.”

Tenzin si ritrovò ad abbassare lo sguardo pensieroso e preoccupato.

Annuì qualche attimo dopo, lentamente, arreso a quell’evidenza.

“Vi rendete conto?” Se la ghignò divertita Ikki, portandosi entrambe le mani alla vita, “quel moccioso ci ha dato delle teste vuote”, fece una breve pausa prima di illuminare lo sguardo e portare e intrecciate le mani tra loro accanto al viso, “Sta diventando grande!”

 

In effetti Rohan stava davvero crescendo, stava valutando con occhi diversi e una curiosità crescente tutto quello che aveva attorno e, sopra ogni cosa, rimaneva un dominatore dell’aria, uno spirito libero e il suo animo non faceva che ricordarglielo attimo dopo attimo, momento dopo momento, costantemente.

 

 

Il bambino aveva cessato la sua fuga sulla cima della rupe più alta dell’isola, che precipitava a strapiombo sul mare. Se ne stava seduto, raggomitolato su se stesso, abbracciandosi le ginocchia. Davanti a lui il promontorio di Citta della Repubblica e la magnificente cupola di vetro dello stadio di Dominio Sportivo dominavano il paesaggio, ma nei suoi occhi c’erano solo lacrime e delusione.

 

“Ehi mostriciattolo!” arrivò inaspettatamente la voce di Meelo che si lasciava cadere seduto accanto a lui pesantemente e senza alcuna premura. Il tono era divertito. “Chi sarebbero le teste vuote?”

 

Rohan sobbalzò appena all’arrivo del fratello, cercando di non darlo a vedere, tirando su con il naso e stringendosi di più alle ginocchia. Nel mentre anche le sue sorelle gli si sedevano accanto, dal lato opposto a quello di Meelo e sicuramente con un’accortezza maggiore, non che in effetti ci volesse molto ad essere più delicati del fratello.

 

“Non lo penso veramente”, bofonchiò con tono remissivo, asciugandosi gli occhi umidi di pianto.

“Lo sappiamo”, arrivò calda la voce di Jinora.

Come sempre, la sua sorellona era gentile con lui e lui aveva ripagato quella sua dolcezza dandole della testa vuota. Il solo pensiero gli imperlò nuovamente gli occhi di lacrime.

“Mi dispiace”, disse ancora sul filo del pianto, mentre Jinora scattava ad abbracciarlo teneramente, costringendolo ad abbandonare ogni resistenza, facendolo scoppiare così di nuovo in lacrime.

“Papà mi odia”, mugugnò tra le braccia della ragazza.

“Naaa, papà non odia nessuno, al massimo un po’ lo zio quando fa lo sciocco, ma certo non te”, spiegò Meelo, gettandosi sdraiato sull’erba, incrociando le braccia dietro la testa solo per osservare il cielo.

 

Lentamente il pianto del bambino sembrò quietarsi.

Jinora lo liberò dal suo abbraccio quando lo vide pronto a spiegare le sue ragioni.

“Mi dispiace tanto, io non voglio far arrabbiare papà, ma… mi irrita così tanto. Non vuole capire che io non sarò mai come voi”,

“Come noi?” domandò Ikki perplessa.

Il bambino annuì. “Non sono fatto per sopportare tutta questa disciplina, non mi riesce di starmene seduto impalato, mentre…”

“Mentre fuori è una così bella giornata”, lo anticipò Meelo.

Rohan si voltò trovandosi ad annuire istintivamente al fratello.

Meelo era sdraiato placidamente, ma mostrava un sorriso divertito in volto.

“Io non sarò mai come voi”, riprese con fare accorato Rohan, portandosi una mano al petto, “non sono intelligente come Jinora, elegante come Ikki o forte come te, Meelo.”

 

Ikki non riuscì a trattenere una risatina. “Quindi pensi che io sia aggraziata? Ti rivelo un segreto”, intervenne, abbassando la voce con fare circospetto, “alla tua età ero goffa come un sacco di patate.”

“Ed io”, aggiunse Meelo, sollevando le gambe per poi darsi lo slancio necessario a tornare seduto di colpo, “non facevo che addormentarmi durante gli esercizi di meditazione.”

“Era un asso, in questo”, intervenne Jinora con un risolino, “riusciva a dormire rimanendo nella perfetta la posizione del loto e credimi non è cosa da tutti!” La sorella gli fece l’occhiolino, prima di continuare: “Ed io, sai Rohan, non facevo che fare la saccente. Ritenevo tutti degli idioti.”

“Vero, eri la migliore in quello, sorella!” La prese in giro Meelo.

“Davvero?” chiese il bambino con fare meravigliato, asciugandosi il viso con la manica della tonaca.

“Parola di sorella maggiore!” esclamò Jinora, sorridendogli.

“Io credevo agli unicorni, alle pentole d’oro alla fine dell’arcobaleno e agli amori a prima vista!” aggiunse Ikki, incrociando le braccia al petto.

“Ehi, gli amori a prima vista sono una cosa seria, non scherziamo!” commentò rapido Meelo.

 

Rohan sfiorò con lo sguardo uno per uno i suoi fratelli, prima di abbassare il capo amareggiato.

“Cosa c’è adesso?” chiese Jinora alla quale quel gesto non era passato inosservato.

“Come… come avete fatto? Come siete riusciti a diventare così bravi?”

Bravi?” esordì Meelo, accennando un ghigno e tornando a intrecciare le dita delle mani dietro la nuca. “Avete sentito, sorelline? Dice che siamo bravi?”

Ikki sorrise e rispose per prima. “Basta avere le giuste motivazioni.”

 

“Ma che motivazioni ci possono essere per riuscire a farti stare seduto immobile per ore”, brontolò Rohan con rassegnazione.

“Come quali?” intervenne Jinora, “Entrare in contatto con il nostro io interiore, con il nostro spirito, papà non fa che ripelo.”

“Sì, va bene, ma… che vuol dire? Insomma che cambia se entro o meno in contatto con lo spirito?”

I fratelli ridacchiarono divertiti dopo essersi scambiati uno sguardo d’intesa.

 

Che c’è da ridere?” sbottò il bambino, intrecciando le braccia energicamente e sbuffando dal naso.

“No, no, non ridiamo di te, ma di papà”, arrivò la spiegazione di Jinora, “non fa che ripeterlo, non fa che ribadire che dobbiamo ampliare le nostre capacità, lasciare fluire l’energia attraverso i Chakra, ma in effetti non è mai stato troppo chiaro neanche a nessuno di noi quando eravamo bambini.”

“Quindi?” soffiò Rohan.

 

Per l’ennesima volta i fratelli si guardarono tra loro.

 

“Da dove possiamo cominciare, vediamo…” prese la parola Jinora, sollevando lo sguardo al cielo terso e ticchettandosi un dito sulle labbra. “Le pratiche meditative servono per dominare lo spirito.”

“Dominare? Come un elemento?”

“In realtà, Rohan, lo spirito è proprio questo: un elemento.” Il bambino guardava la sorella con occhi sorpresi. “È energia, come ogni altro dominio, ma un’energia più sottile e gentile. Talmente gentile da poter essere utilizzato da chiunque lo voglia conoscere, ma così tanto sottile e impalpabile che raggiungerlo a volte più difficile del dominarlo.”

“Non ho mai sentito parlare di dominatori dello Spirito. Di spiriti sì, ma non di dominatori dello spirito, no no!” la interruppe Rohan, dubbioso.

“Jinora”, intervenne Meelo, “a volte parli più complicato di papà!”

La ragazza guardò malissimo il fratello, ma dovette sospirare arresa notando l’espressione interrogativa che aleggiava sul volto di Rohan.

“Va bene, vediamo se riesco a farla più semplice”, riprese. “Tutti possono dominare lo spirito con un po’ di pratica, compresi i non dominatori. Essendo accessibile a tutti e non elitario, non crea un’eccezione quindi…”

 

“Te la faccio io veramente semplice”, disse Ikki, bloccando la spiegazione della sorella maggiore che sbuffò infastidita. “Tutti usiamo le mani, ma questo non ci rende dominatori delle mani. Lo spirito fa parte di noi, proprio come mani, piedi, occhi, naso, bocca e capelli. Per chi ce li ha chiaramente! Capito?”

Il bambino annuì. “Ma a che serve dominarlo?”

 

“Nei non dominatori li aiuta ad ampliare le loro capacità. I loro sensi vengono aumentati così e la loro resistenza. Nei dominatori avviene lo stesso”, tornò a spiegare Jinora, ricercando parole più semplici. “Noi dominatori, in quanto tali, possediamo un dominio specifico, che sia questo l’aria, la terra, L’acqua o il fuoco. Il domino è parte di noi, proprio come mani e piedi, di conseguenza anche questo, come tutto il resto, ne viene ampliato.”

“Cioè?” chiese Rohan improvvisamente attento.

“Per i Dominatori dell’Aria come noi”, disse Meelo, “non solo ci aiuta a potenziare e perfezionare le nostre tecniche, ma con la giusta pratica ci permette di entrare in forma spirituale, di trascendere la nostra esistenza fisica e viaggiare nei piani dello spirito.”

“Senza passare dai portali?” domandò ancora il bambino.

“Già, proprio senza passare dai portali.”

“E gli altri dominatori?”

“Gli altri, vediamo…” si fece pensieroso Meelo per poi occhieggiare la sorella maggiore.

 

Jinora rispose a quello sguardo con sufficienza, ma non riuscì ad esimersi a quella chiamata in campo. “I dominatori dell’acqua usano il connubio con l’energia spirituale per curare ferite e malattie. Non a caso intervengono sui Chakra per farlo.”

“L’energia spirituale è sia dentro che fuori di noi e i punti d’accesso e di uscita sono i nostri Chakra”, spiegò Ikki. “Un po’ come delle porte, ma bisogna aprirle e la chiave per farlo è la concentrazione.”

“Uhm…” mugugnò il bambino, riflettendoci sopra.

 

“I dominatori del fuoco, tramite l’unione con lo spirito, come ogni altro dominatore possono scagliare colpi più temibili, ma questo permette loro anche di controllare al meglio le loro funzioni fisiche”, tornò a spiegare la sorella maggiore. “Possono regolare la loro temperatura corporea tramite di Chi, guarire più velocemente di altri e rigenerare le ferite con altrettanta velocità…”

“I Chi?” l’interruppe il più piccolo, “Come i bloccanti?”

“Ecco, questo è un buon ragionamento”, costatò Jinora. “I bloccanti non sono dominatori, ma intervengono sui punti di pressione proprio come i dominatori dell’acqua. In pratica fanno l’esatto contrario di quello che cerchiamo di fare noi con la meditazione. Noi apriamo i nostri Chakra, loro li chiudono.”

“Non è una bella cosa e ti posso assicurare che non fa per nulla bene”, commentò Meelo. “Il dominio per un dominatore è al pari di uno dei cinque sensi, è come ritrovarsi improvvisamente, monco, cieco o sordo. È terribile.”

“Già”, riprese Jinora, “è violento e terrificante. Chiudendo anche solo uno dei Chakra il flusso di energia ne viene influenzato. Lo spirito è l’energia su cui cavalca il dominio, se perdiamo la connessione con lo spirito, perdiamo anche la connessione con il dominio.”

“Mi sto perdendo. Cosa vuol dire questo?” Rohan guardò la sorella perplesso. “Io uso il mio dominio da sempre senza utilizzare lo spirito.”

“Questo lo credi tu, Rohan. Lo spirito è dentro di noi, fuori di noi, dentro ogni cosa. È l’energia allo stato puro, essenziale, e tutti lo utilizziamo inconsciamente. Dominarlo però è tutt’altra cosa.”

“Forse comincio a capire”, disse il bambino, “in pratica è come se i bloccanti mettessero le manette alla nostra energia, è questo vero?”

Esatto!” esultò Jinora orgogliosa.

 

“Però! Mi sa che Rohan è più sveglio di te alla sua età, sorella”, commentò divertito Meelo.

“E tu che ne sai, eri solo un poppante”, replicò stizzita la sorella maggiore.

“Qualcuno qui ha la coda di paglia!” ribatté volutamente fastidioso Meelo.

 

“E i dominatori della terra?”  La domanda di Rohan arrivò tempestiva, prima che la discussione tra i due fratelli sfociasse in bisticcio.

 

“Vero, ci dimenticavamo dei dominatori della terra”, sottolineò Meelo, battendosi il pugno su un palmo.

Jinora sorrise e fece per aprire bocca quando la vocetta acuta di Ikki la precedette. “Lo spirito”, disse la sorellina, “permette ai dominatori della terra di avere un controllo quasi totale sul territorio. Concentrandosi sul loro elemento riescono a percepire qualunque vibrazione sul e nel terreno all’interno del loro raggio d’azione.”

Forte!” esordì Rohan.

Forte, è vero!” Sorrise Ikki.

 

Per una manciata di secondi tutti e quattro i fratelli scivolarono con lo sguardo sulle acque che circondavano la loro isola, prima di respirare a pieni polmoni.

“È davvero una gran bella giornata!” disse Ikki.

“L’estate è arrivata, finalmente”, commentò a sua volta Meelo.

“Devo ammettere che mi era mancata”, concluse Jinora.

Rohan non disse la sua, limitandosi a sorridere per poi sdraiarsi sull’erba a guardare il cielo.

I tre ragazzi sembrarono accogliere quel consiglio non detto, facendo lo stesso.

 

Le nuvole rade si inseguivano nel cielo, spinte da un vento quieto e gentile.

“Già, è proprio una bella giornata!” ripeté Ikki, chiudendo gli occhi, coccolata dal sole caldo di mezzogiorno.

 

“E Korra?” arrivò improvvisa la domanda di Rohan.

“Cosa?”, “Che?”, “Eh?”, domandarono all’unisono le voci dei fratelli.

“Korra”, ripeté il bambino, “è l’Avatar e l’Avatar è il Ponte tra gli Spiriti e gli esseri umani, questo vorrà pur dire qualcosa, no? Oltretutto controlla tutti e quattro gli elementi. Come usa lo spirito, Korra?”

 

Ahhh!” esordì eccitato Meelo, utilizzando il suo dominio per balzare in piedi, in maniera tanto scenica quanto spericolata. “È una vera forza! Hai mai sentito parlare dello Stato di Avatar?”

“Quando le diventano gli occhi bianchi?”

Esatto, fratellino!” gli disse, strizzandogli un occhio e indicandolo con entrambi gli indici sparati nella sua direzione per enfatizzare quel piccolo successo.

“Non mi sembra una gran forza, però!” commentò Rohan. “Insomma, diventa più forte è vero, ma… boh!”

Boh? Boh? Come sarebbe a dire boh?” ribatté Meelo con sgomento. “Guarda che non diventa solo super mega fortissima, ma entra in contatto con le coscienze degli Avatar precedenti. Uhm… ok, questo magari prima che li perdesse e ricominciasse il Ciclo dell’Avatar, ma questa è un’altra storia. Fatto sta però, che entra in contatto con Raava, lo spirito di luce, che è uno spirito talmente vecchio che non le si contano le rughe e…”

“Non si contrano, cosa?” chiese perplessa Jinora.

“Lascia stare. Linguaggio giovanile. Sei troppo vecchia per capirlo”, la liquidò atono Meelo, scacciando via l’aria davanti al volto con una mano, prima di tornare a guardare Rohan e riprendere: “Poi c’è quella cosa dell’Unione con l’Universo, vuoi mettere?”

 

A Jinora tremava un sopracciglio, irritata dall’essere stata messa all’angolo dal fratello.

 

“Unione con l’Universo?”

“Già. Tu eri troppo piccolo, per ricordarlo”, intervenne Ikki, scattando seduta, “ma durante lo scontro con Vaatu, Korra meditò nell’Albero del Tempo, un luogo mistico nel Mondo degli Spiriti, riuscendo ad entrare in contatto con la parte più profonda dello spirito. Divenne tutt’uno con l’energia spirituale dentro e l’energia cosmica fuori di sé. Raggiunse uno stato mistico assoluto che proiettò la sua essenza gigantesca nel Mondo degli Uomini, nella nostra realtà, e gli permise di recuperare Raava dal petto di Vaatu e riportare la pace. Raccontata così sembra una favola, ma… è accaduto davvero, sai?”

“E non solo”, aggiunse Meelo, “c’è da dire che Korra non sarebbe riuscita a fare tutto quello che ha fatto senza l’intervento della nostra sorellona.”

“Cosa?” domandò il piccolo.

Jinora sorrise: Meelo sapeva essere tanto odioso quanto adorabile, a volte.

“Proprio così! È apparsa davanti a lei in forma spirituale, dicendole di non mollare, che non poteva esistere l’oscurità senza la luce e… Tutto è bene quel che finisce bene!” concluse Meelo con un inchino.

“In pratica una lotta tra spiriti eterni, combattuta con l’aiuto dell’energia spirituale e vinta proprio grazie a questa.”

Ancora esatto! Wow, sei un genio, fratellino!” commentò nuovamente Meelo divertito. “Non dovrò cominciare a preoccuparmi, vero? Ce ne basta una di secchiona in famiglia.”  

Jinora sbuffò arresa, mentre Rohan rise allegro.

 

Ikki si sollevò da terra, stirandosi verso l’alto come un gatto.

“E se ce ne andassimo in spiaggia?” propose.

Meelo fu rapido a richiamare il suo dominio, abbassando il baricentro e roteando le mani fino a formare sotto di sé una sfera d’aria che lo alzò neanche fosse un fuscello. “Chi arriva ultimo è un mollusco!” Dichiarò, cavalcando il suo domino e lanciandosi verso la spiaggia.

Cosa? Sei partito prima, così non vale?” gli gridò dietro Ikki, facendo vorticare a sua volta l’aria sotto di sé, lanciandosi rapida all’inseguimento del fratello.

 

Jinora si alzò dall’erba con tutto comodo, andare alla spiaggia non era una brutta idea, ma lei aveva il suo modo di fare le cose e quello usato dai fratelli non era esattamente quello che le ci confaceva di più in quel momento. Senza contare che le sarebbe bastato richiamare il suo dominio e planare direttamente da quella cima fino alla spiaggia sottostante per vincere quella gara.

Osservò Rohan guardare immobile nella direzione dei suoi fratelli con un sorriso sereno in volto, finalmente.

“Che c’è, non vai con loro alla spiaggia?” chiese, posandogli una mano sulla spalla.

“Naaa”, rispose il fratellino. “Ho delle scuse da fare e una lezione di meditazione da recuperare.”

“Molto saggio da parte tua”, commentò la ragazza. “Ma adesso scusami”, continuò con tono furbetto, “ho una gara da vincere!” e senza pensarci su due volte, si lanciò dalla rupe sciogliendo i ganci della sua tuta alare e godendo della piena libertà del suo elemento.

lancethewolf: anatra col guscio da tartaruga (Default)

Titolo: “Ritorno a Motu Nui”

Cow-t 9, settima settimana, M5.
Prompt: “Acqua”
Numero parole: 3933
Rating: Verde
Fandom: Moana/Oceania (Disney - classici)

Introduzione: è passato del tempo, ma nel cuore di Moana è ancora vivido il ricordo della sua avventura con Maui.
Genere: Romantico, Introspettivo, Fluff
Coppia: Moana/Maui
Avvertimenti: Nessuno (tranne: acqua tanta acqua da per tutto XD)

Note: Tantissimi auguri di buon compleanno a Donnasole, a cui è dedicata questa storia! Auguriii!!!

 

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La conchiglia, col tempo e la salsedine, si era cementata al resto delle pietre deposte da ogni singolo capo, diventando un tutt’uno, proprio come ogni isola era tutt’uno col mare: Moana era tornata.

Era sulla vetta che sovrastava il piccolo villaggio e la foresta, la più alta di Motu Nui. Erano passati dieci anni, ma la sua isola sembrava ferma nel tempo a parte… Distolse lo sguardo dall’altare delle memorie della sua gente con lo stupore, mai perso crescendo, di quanto l’immensità azzurra fosse seducente; lasciò che scorresse oltre la spiaggia, oltre il mare calmo, oltre il Reef, e accarezzò la vastità oceanica perdendosi verso l’orizzonte; quella vastità finalmente tornata a essere la loro casa, la sua casa. Tutto era partito da lì, dal momento in cui il suo popolo aveva riavuto indietro l’oceano.

 

«Ho trovato la mia strada, nonna», raccontava la giovane donna al mare. Era seduta sulla spiaggia, poco lontano dal bagnasciuga. Il sole era tramontato da poco e ancora il cielo era percorso da sfumature viola e blu che sembravano volerne delimitare i confini con gli abissi. «Sono il capo adesso e sono orgogliosa di esserlo. Il nostro popolo sa finalmente chi è, chi è stato e non teme cosa sarà. Abbiamo ritrovato le nostre radici e aperto una nuova via verso il futuro. Sono tornata per celebrare tutto questo. Per celebrare il momento in cui abbiamo riavuto indietro la nostra storia, il nostro orgoglio di navigatori.»

Un baluginio lontano tra le onde le diede la calda sicurezza di essere ascoltata.

Sorrise dolcemente, quasi qualcuno la sfiorasse e le cingesse le spalle nel tepore di un abbraccio. Sospirò coccolata da quella sensazione e dal suono sibilato dell’andirivieni delle onde contro la sabbia.

«Sono tornata, ho compiuto il mio destino, ma allora… perché? Perché sento che manca ancora qualcosa? Cosa c’è di sbagliato in me?»

 

«Moana!» Un richiamo spezzò la bolla di nostalgia che l’avvolgeva, riportandola alla realtà.

Non troppo lontano, due giovani donne trasportavano cesti di frutta, facendole cenno di avvicinarsi. «Vieni? Abbiamo finito, possiamo fare due chiacchiere, prima della festa.»

Moana sorrise loro, ma dissentì col capo. «Grazie, vi raggiungerò più tardi, ho ancora delle cose a cui pensare», rispose con voce gentile ed era vero, doveva riflettere: non avrebbe mai creduto, se glielo avessero detto, che tornare nella sua isola avrebbe potuto scuoterla tanto.

 

Appena le donne si allontanarono, lei si gettò all’indietro: sdraiata sulla sabbia, le braccia incrociate dietro la nuca e lo sguardo fisso, scrutava le stelle alla ricerca del segno che, tanto, tanto tempo addietro, le aveva indicato la via da seguire.

Stava per cedere alla nostalgia, ma si ritrovò a sorridere nell’udire un becchettare conosciuto che si faceva sempre più vicino.

Socchiuse gli occhi, soffiando dalla bocca rassegnata, prima di voltare il capo verso la fonte di quel suono: HeiHei III le si stava avvicinando, ingoiando conchiglie come fossero semenza.

«Non posso sperare di rimanermene un po’ in pace, vero?», chiese con una nota d’ironia nella voce, tirandosi nuovamente a sedere, mentre il polletto le razzolava attorno. «Sei stordito esattamente come il tuo antenato», commentò mentre l’animale, incurante delle sue parole, continuava quel banchetto a base di… nulla. Nulla di commestibile, quanto meno.

«HeiHei sì che era un avventuriero, mica come te!», riprese, sollevandosi e seguendo il giovane pollo. «Mi ha accompagnata in viaggio per recuperare il cuore di Te Fiti con…», si bloccò, abbassando uno sguardo sconsolato, «…Maui.»

 

Chissà dov’era finito quello ragazzone tutto muscoli e… poca voglia di rimettersi in gioco?

Ritrovò il sorriso a quel pensiero: solo a lei poteva venire in mente di chiamare “ragazzone” un semidio… e senza che glielo avesse mai concesso, chiaramente.

Scoppiò a ridere, per poi riportare l’attenzione sul polletto.

«Se ti vedesse così bello in carne ti mangerebbe in un boccone, lo sai?», lo canzonò riprendendo a ridere talmente di gusto che si ritrovò piegata su sé stessa a tenersi la pancia.

Cielo, da quanto non rideva così?

Si asciugò una lacrima, mentre quietava il riso.

Un riso strano, in grado di trasportarla indietro nel tempo; un riso misto a tenerezza e malinconia, sensazioni che l’avevano invasa e non volevano saperne di abbandonarla.

 

Sollevò lo sguardo alla ricerca di HeiHei. Fece in tempo a vederlo continuare a beccare lungo il ponticello di legno poco più avanti e domandarsi come avesse fatto a non cadere tra un’asse e l’altra, distratto com’era, che lo vide tirare dritto fino all’acqua.

«HeiHei!», gridò, gettandosi preoccupata in mare per recuperarlo.

 

La luna si mostrò splendente in cielo, proprio nel momento in cui il pollo vi si stagliò contro, riemergendo dell’acqua, tenuto per il collo dalla mano della giovane donna.

Moana riprese fiato, emergendo a sua volta, rivolgendosi a HeiHei apparentemente stecchito, «Che ti chiamo a fare? Non sai nemmeno riconoscere il tuo nome!», disse, facendo spallucce per poi sbuffare contro una ciocca bagnata che le ricadeva davanti al viso, scostandola il giusto per ritrovarsela, l’attimo dopo, spiaccicata a dovere contro il naso.

«Ahhh!», sospirò arresa, alzandosi e tornando verso la verso la spiaggia. Il tempo di poggiare il pollo sulla sabbia che questi, trovatosi all’asciutto, rinvenne istantaneamente, spalancando gli strabuzzanti occhi a palla e sfuggendole di mano.

«Ma che di…», stava per inveire contro l’animaletto, se non fosse che, in quell’esatto momento, la periferia del suo sguardo venne catturata da una scia luminosa che squarciò le acque scure dell’oceano, mentre si avvicinava alla riva.

«Nonna Tala», pensò voltandosi: la sua nonnina doveva averla davvero sentita e stava arrivando in forma di manta per confortarla, per spiegarle cosa non andasse in lei.

Spinta dall’euforia, mosse qualche passo verso la luce, prima di lanciarsi in una corsa.

Un paio di passi veloci, fin quando HeiHei non decise di tagliarle la strada.

Moana schivò per miracolo il pollo, ritrovandosi a incespicare sui suoi stessi piedi, tentando di recuperare equilibrio, barcollando incontrollata sul bagnasciuga, per inciampare infine su una roccia semi nascosta nella sabbia e cadere in acqua con il didietro all’aria.

 

HeiHei III continuava a beccare in terra, inconsapevole di quanto gli fosse appena avvenuto attorno.

 

Moana sollevò la testa dall’acqua, sbuffando, ritrovandosi nuovamente bagnata dalla punta dei capelli a quella dei piedi e con una meravigliosa vegetazione d’alghe tra i capelli.

Si lasciò andare seduta, gridando: «Accidenti HeiHei, vuoi stare un po’ più attento!»

Parole al vento, il polletto dal DNA stordito aveva preso a banchettare, o almeno ci provava, con una grossa noce di cocco rotolata sulla sabbia.

 

Distratta dall’accaduto, con i capelli davanti agli occhi e apparentemente dimentica del bagliore tra le onde, si sentì sollevare di peso e rimettere in piedi.

«Carina, è l’ultima moda di Motu Nui? Direi che fa molto… ehm… abissi

Quella voce spavalda le giunse ovattata dall’acqua nelle orecchie.

«Fammi indovinare, tu sei il simpaticone del villaggio, giusto?», rispose lei, chinando la testa a destra e a sinistra e tormentandosi l’orecchio di turno come per farne uscire l’acqua.

«Simpati-cosa? Ehi, sono io», rispose a sua volta quella voce con tono offeso. «Io. Quanti eroi conosci che salvano donzelle dal mare?»

 

«Maui?!», la mente della giovane stentò a crederlo eppure... il tempo, da parte del semidio, di scostarle da un occhio una ciocca farcita d’alga, e se lo ritrovò davanti.

Il cuore mancò un battito, mentre il ragazzone, in posa plastica, continuava incessante il suo blaterare: «Comunque, anche un semplice “Ciao” poteva andare, certo, sarebbe stato meglio un “Wow, bel fustacchione ti vedo in forma”, ma pazienza», aggiunse in falsetto, per poi riprendere: «Il punto è che passavo da queste parti e…»

Mentre Maui era intento a toglierle, una dopo l’altra, le alghe dai capelli, quel folle monologo improvvisato, troppo serrato per permetterle d’intervenire, non poté che scatenarle un moto d’allegria mista a sollievo.

Era lì! Il suo amico era lì, davanti a lei, entrambi con i piedi a mollo, ma era lì.

 

Il Mini-Maui tatuato sul pettorale dell’eroe bussò per richiamarne l’attenzione, riuscendo a bloccare quel farneticare.

«Uh?», uscì interrogativo dalle labbra del semidio, mentre voltatosi a guardare il piccoletto si colpì di seguito col palmo in fronte. «Ah, sì giusto! Quasi dimenticavo», esordì a quel punto, tirando fuori dall'acqua un’enorme zampa di crostaceo, continuando poi: «Per la zuppa. Sapevo della ricorrenza. Insomma è oggi, giusto? Ho pensato fosse forte festeggiare con gli amici o… beh, almeno con parti di loro. Non era necessario portarlo tutto, vero? Quanti hai detto che siete nel villaggio?»

 

Moana seguiva quel soliloquio, annuendo, ancora in parte incredula che quello davanti ai suoi occhi fosse proprio quel folle di un semidio, ma… era vero, doveva essere vero, perché le cose sembravano sempre un po’ fuori posto quando s’incontravano, nulla era mai perfetto eppure, riuscivano a stare bene insieme; lei stava bene, malgrado il bagno improvvisato, le alghe e i piedi ancora a mollo. Doveva davvero esserci della magia per riuscire a star bene anche quando le cose erano tutto tranne che perfette o probabili. “Magia”, questo doveva essere quello che Maui aveva portato con sé sull’isola, perché improvvisamente Moana non sentiva più quella strana malinconia che da tempo le si era annidata nel cuore.

L’allegria aveva preso il posto di quel sentimento grigio, scuotendole le spalle tanto costringendola a ridacchiare, divertita da quel fiume di parole in piena: malgrado il tempo passato, Maui era sempre lo stesso.

 

«Ehi, non starai ridendo di me, ragazzina?», sbottò lui, puntando entrambi i pugni sui fianchi e mettendo su un’espressione offesa.

Il tatuaggio lo riprese di nuovo, colpendolo con un pugnetto sul pettorale, come a ricordargli di comportarsi a modo.

Il tempo per Moana di ricomporsi, cercando di nascondere il riso dietro una mano, e dire «Povero Tamatoa», che il ragazzone, petto in fuori e sorriso smargiasso, dichiarò soddisfatto: «Vedo che lo hai riconosciuto. Non sai che storia! Ha del mitologico e, se te lo dico io che sono un mito, puoi crederci». Un occhiolino, prima di continuare: «Mi trovavo a passare per le acque attorno all’ingresso del Lalotai, il Regno dei Mostri, quando…»  

Ancora il piccoletto sul suo petto l’interruppe, piegando la palma tatuata e tirandogli un cocco, ehm… tatuato, appunto, contro una spalla.

«Ahi! Ehi, ma cos…?», protestò Maui, massaggiandosi la parte colpita, «Che c’è? cosa c’è che non…»  

Il tatuaggio, riottenuta la sua attenzione, tornò a interromperlo, battendo un piede sul posto e mostrandogli una mappa con un grossa “X” al centro.

«Ok, ok, forse non ci sarò finito proprio per caso, ma non puoi dire che io non sia stato fantastico!»

Ancora il Mini-Maui ebbe da ridire sul come si erano svolte le cose, mutandosi in una sorta di crostaceo stilizzato che scuoteva una sua versione ancora più mini, tenendola per il collo tra le sue chele.

«Va bene, va bene, forse non è stata esattamente una passeggiata, ma non puoi dire che non abbia mostrato grande valore nel…»

Ancora il piccoletto, tornato alla sua forma originale, gli fece cenno di rallentare con le mani, prima di mimare il gesto di raccogliersi i capelli e acconciarli.

«Giusto!», esordì Maui, battendosi il pugno sulla mano, il tutto davanti a una Moana attenta, e soprattutto, divertita come non capitava da anni.

«Dove diamine l’ho ficcato!»  Aggiunse ancora l’eroe degli uomini e delle donne, ovviamente, cominciando a cercare tra le foglie sempre verdi del suo gonnellino, blaterando ad alta voce i suoi pensieri: «Da non credere quanta roba ci si perda oggigiorno tra le foglie di… Eccolo!», finì entusiasta, tirando fuori un fermacapelli di un intenso color… ehm… crostaceo.

Prima che Moana potesse mettere a fuoco la situazione, il piccoletto tatuato batté nuovamente sul petto dell’eroe, indicandogli la ragazza.

Maui guardò il tatuaggio.

Guardò la ragazza.

Guardò il pettinino.

Tornò a guardare la ragazza e, afferrandola per la vita, l’alzò di peso per posarla sul pontile al loro fianco e salirvi di seguito con la facilità, grosso com’era, con cui si sale un gradino poco più alto del normale; ritenendo, probabilmente, che quanto avesse da dire sarebbe stato più conveniente dirlo con i piedi fuori dall’acqua.

 

Senza dare il tempo alla ragazza di pronunciare una sola parola, le porse il fermaglio.

«Un regalo per la Mia fan numero uno!», dichiarò strizzandole l’occhio.

Moana sorrise prendendo l’ornamento che le porgeva e rimanendo un secondo a osservarne i decori floreali in rilievo, prima di pronunciare: «Ricorda il guscio di Tamatoa.»

«No, non è che lo “ricorda”: “è” il guscio di Tamatoa. E, come ti ho detto, o per meglio dire, ho provato a farlo, si tratta di una storia impressionante. Ha davvero dell’incredibile come ho pareggiato le zampe del mio ex-amico, barra mostro, barra crostaceo gigante. Immagina, io ero lì che mi…» Maui ripartì a blaterare, ma si bloccò senza fiato non appena la vide raccogliersi i capelli e indossare il suo regalo.

Gli sfuggì un «Wow! Sei bel… cioè: ti sta davvero bene, accidenti!», si riprese in tempo, mollandole un pugnetto delicato su una spalla, almeno così credette, pensando di risolvere il tutto scoppiando poi in una sonora risata.

 

Il piccoletto tentò di rimetterlo, per l’ennesima volta, in carreggiata, scuotendo il capo rassegnato e facendogli volare un nuovo cocco contro il mento.

Maui stava per inveire ancora contro il tatuaggio, quando Moana, arrossendo appena, interruppe ogni bellicosità sul nascere, dicendo: «È molto bello, grazie.»

«No. Tu sei bella», disse lui, facendosi d’improvviso troppo serio. Impreparato a quella valanga di emozioni, cercò alleggerire la situazione: «Piuttosto, dimmi: ti sono mancato?», per continuare, come sua abitudine, con un «Pts! » e, facendo il gesto di spolverar via “chissà cosa” da una spalla, si rispose da solo: «Ovvio che ti sono mancato: io sono Maui, mica uno qualunque. La domanda giusta è: quanto ti sono mancato? E… Ti sono mancato più io o i miei splendidi capelli? A me puoi dirlo, mica mi offendo». Ammiccò al suo riflesso nell’amo. «Eh già, non c’è storia, bello!», disse ancora, lanciando un bacetto.

 

Il tatuaggio sul suo petto tentò inutilmente d’impiccarsi a una palma.

 

Moana, trattenendo a stento una risatina, bloccò gli strani entusiasmi del Semidio, afferrandogli una mano con le proprie e rispondendogli: «Gli amici mancano sempre.»

«E noi… siamo questo? Siamo solo amici?», ribatté lui a bruciapelo.

 

Per una manciata di secondi tutto sembrò fermarsi, mentre Moana, si trovava priva di parole, con lo sguardo fisso negli occhi scuri del gigante.

Un secondo ancora, poi, afferrato un pensiero fugace che la tormentava da prima che lei stessa se ne rendesse conto, socchiuse le labbra pronta a parlargliene, quando… «Mamma!», chiamò disperato un bimbo, correndo sulla spiaggia.

Moana non fece in tempo a voltarsi, sussultando a quel richiamo, che il piccolo, vedendola, le corse incontro, gettandosi senza fiato tra le sue braccia.

«Anapa», lo chiamò lei, abbassandosi quanto serviva per accoglierlo nel suo abbraccio.

Il bambino sussultava scosso dai singhiozzi, col viso nascosto contro il petto della giovane.  

«Non piangere, ci sono io qui, ora», tento di rassicurarlo, carezzandogli la testolina scapigliata.

Il piccolo non sembrava però intenzionato a smettere.

Moana gli sollevò li visetto con attenzione, in modo da poterlo guardare in quegli occhioni ricolmi di lacrime: «Lo sai chi è questo signore qui con me?»

Il bimbo dissentì con il capo, tirando su con il nasino.

«Lui è Maui, mutaforma, semidio del vento e del mare, eroe degli uomini», l’informò a quel punto, proprio come Maui stesso aveva tenuto a sottolineare anni addietro, sapendo cosa significasse il ragazzone per quel bimbo.

 

D’improvviso lo sguardo del bambino si fece più vivace. Rapidamente si asciugò i lacrimoni col braccino e voltandosi verso il semidio, chiese: «Sei davvero Maui?»

«In carne e ossa, ragazzino», rispose il gigante, mandando indietro la chioma fluente e mettendosi in posa.

«Sei il mio eroe, so tutto di te, sai? La mia mamma mi racconta sempre tante storie su te e le tue avventure», asserì il bambino, emozionato.

 

Maui sorrideva spavaldo alle lusinghe del piccolo fan, nascondendo la sua sorpresa e decidendo di fare buon viso a cattivo gioco; si rendeva conto, forse per la prima volta, che la vita era andata avanti per tutti, anche per Moana. Era stato uno stupido a credere… a credere cosa?

Scacciò via quel pensiero troppo pesante, provando nel petto un misto di dispiacere e gioia per la ragazza; un sentimento strano per il Maui egocentrico ed egoista che mostrava al mondo, ma il tempo non era passato solo per lei. Moana non era la sola ad aver fatto i conti con quello che era e quello che altri volevano che fosse, anche lui era stato costretto a cambiare e sapeva benissimo quando quel cambiamento era cominciato…

Si sfiorò distrattamente un orecchio mentre, ridendo, mostrava al bambino i suoi muscoli, lasciandolo ciondolare da un braccio.

…Era stato nell’esatto momento in cui aveva incontrato Moana di Motu Nui.

 

«Dì, hai visto mai tanti muscoli su un uomo solo?», domandò l’eroe di tutti al bambino che dissentì entusiasta con il capo, prima di lasciarsi cadere e tornare con i piedini in terra.

Moana guardava la scena con un sorriso gentile e una mano posata sul cuore, tanto era il calore che questa le provocava.

Anapa rideva entusiasta alle parole del semidio, fin quando notò l’enorme zampa del crostaceo posata sul pontile. «E quella?», chiese.

«Ahhh», disse Maui indicando con il pollice da sopra la sua spalla, «quella sì che è una gran bella storia, ragazzino.»

Il bambino lo guardava emozionato e attento.

«Ero nel grande mare a sud dell’entrata per Lalotai», iniziò con aria drammatica, «quando mi è suonato un campanello d’allarme e mi sono ricordato che “Accidenti, sono dieci anni da quando ho riportato il cuore di Te Fiti, bisogna festeggiare”, e con chi potevo festeggiare se non con gli amici, mangiando una buona zuppa di granchio gigante? Mi arrampicai quindi, incurante del pericolo, fino alla vetta. Fino alla porta che recava i simboli terrificanti del Regno dei Mostri, porta che solo gli dei, o chi è stato scelto da loro, possono aprire. Una volta aperta mi gettai nell’abisso scuro che racchiudeva. La discesa infinita si infranse contro la bolla che racchiudeva quel tenebroso reame e…»

La suspense cresceva sotto gli occhi attenti del piccolo, quando Moana scosse la testa divertita, avvicinandosi ai due: si stava facendo tardi e aveva una ricorrenza da celebrare.

«E… come mai invece sei qui tutto solo, Anapa?», chiese, interrompendo il racconto del semidio.

Il bambino sussultò, ricordandosi improvvisamente cosa l’avesse spinto fino alla spiaggia. «Cercavo la mamma. Tu sai dove si trova, Capo Moana?»

La giovane donna, fingendo arrendevolezza, ma non lesinando un sorriso, indicò al bimbo la direzione presa dalle due donne incontrate non troppo tempo prima.

 

Quindi quel “cosetto” non era più figlio di Moana?

 

Il bambino fece per avviarsi, ma si trattenne, invaso da un moto d’indecisione: lì c’era il suo eroe.

Di corsa si gettò addosso a Maui, attaccandosi saldamente alle foglie del suo gonnellino e, guardandolo con occhi supplichevoli, disse: «Ti prego, non andare via!»

«Ehi, ehi, ehi, calma ragazzino!»

«Ti prego, ti prego, ti prego, rimani per la festa!»

«Ma certo che sì. Sono venuto per la festa e rimarrò per la festa, ovvio!», Rispose l’eroe stranamente più lieto che mai, «No Maui. No party!», concluse, ammiccando.

 

Il bambino allargò un sorriso entusiasta e corse via contento.

 

Maui lo guardò andare con aria soddisfatta, prima di voltarsi verso lo zampone di Tamatoa; a quel punto non gli restava che preoccuparsi del granchio per la zuppa.

Si piegò per sollevare il pezzo di crostaceo, quando Moana lo abbracciò di getto, senza alcun preavviso.

«Non sai quanto sia felice che tu sia qui!», gli confessò finalmente, stringendolo come non ricordava di aver mai fatto.

Il ragazzone nuovamente e incredibilmente serio, le sollevò il viso per guardarla negli occhi.

«Anche tu mi sei mancata e non poi immaginare quanto.»

Improvvisamente tutto era perfetto: il vento leggero che scompigliava loro i capelli, il dolce suono della onde che si perdevano sulla spiaggia, quella luna tanto grande quanto luminosa in cielo e quegli occhi… quegli occhi scuri e profondi in cui perdersi in un modo che nessuno dei due aveva mai pensato potesse essere tanto dolce.

Una mano della giovane si aggrappò alla nuca del semidio, mentre i volti di entrambi si avvicinavano l’uno all’altro. Le loro labbra erano così vicine da sentirsi coccolati dal respiro tiepido che sfiorava loro la pelle. Sapevano cosa stava per succedere e nessuno dei due aveva voglia di spezzare quella magia.

 

Il piccoletto tatuato sul corpo del semidio fremeva, con il cuore che gli pulsava letteralmente fuori dal petto.

 

Mancava così poco, troppo poco per non essere un sogno; eppure erano lì, Maui e Moana, soli, su quel pontile.

 

«Eccoli!», gridò la vocina allegra di Anapa di ritorno alla spiaggia, accompagnato da una folla inneggiante che, avvertita dal bimbo della presenza dell’eroe sull’isola, non poteva non accorrere e rendere Maui partecipe dei festeggiamenti.

 

Gli uomini del villaggio sollevarono di peso i due eroi, portandoli in trionfo, senza accorgersi di averli strappati l’uno all’altra.

Moana rise divertita dall’ennesima interruzione della serata; entrambi risero, trascinati da quella processione festante, mentre mani abili li agghindavano per la festa.

 

 

Lentamente l’orizzonte schiariva: era l’alba ormai, la festa era finita e con questa era tornato il silenzio su tutta Motu Nui.

Moana e Maui, una vicino all’altro, sedevano sulla spiaggia, esausti, ma soli finalmente.

Nessuno dei due parlava, non che ne mancasse la voglia, no, solo… cosa c’era da dire?

Erano stati così vicini a dire e a fare qualcosa che avrebbe potuto cambiar loro la vita…

 

Il semidio però non era fatto per il silenzio: non era riuscito a starsene zitto neanche quando era rimasto relegato in solitudine su quel sasso in mezzo al nulla e… «Certo che la zuppa è stata una vera prelibatezza!», disse con una nota d’orgoglio nella voce, «Chi lo avrebbe detto che Tamatoa potesse essere un amico tanto delizioso

Moana accennò un ghignetto a quella battuta anche troppo scontata, ma del tutto in linea con l’eroe accanto a lei.

«Non credere che sia stato facile, trovare l’ingrediente principale. Ho dovuto scontrarmi non solo contro il mio ex collega di scorribande, ma anche con la ciurmaglia di cocchi indemoniati che ha adottato, barra assoldato, per non so cosa e che volevano farmi la pelle in non si sa quanti modi diversi. Li ho affrontati uno dopo l’altro, senza risparmiarmi e loro… oh, per tutti gli dei! Loro non si sono certo esonerati da colpi bassi e assurde infamie sulle mie frequentazioni più intime. Uhm… sai, credo che abbiano fatto anche delle allusioni su di te, ti credono un ragazzino capellone, o un crostaceo di terra, beh… il mio Kakamorese non è mai stato il massimo, ma propendo per la prima. Comunque, ero lì che rispondevo a colpi con colpi, mutando di volta in volta in quanto il mio genio illimitato proponeva per superare ogni nuovo ostacolo che quella congrega di piccoli e infernali pirati mi parava davanti quando lui, Tamatoa, squallido e sleale, si insinuò nel combattimento, afferrandomi con le sue aguzze chele e…»

Moana sorrise, posandogli un dito sulle labbra, zittendolo all’istante.

«Dunque, sei andato nel Lalotai, le hai suonate a Tamatoa, pareggiandogli le zampe, per poi filare via prima che chiamasse rinforzi. È andata così, no?», riassunse lei i fatti come immaginava fossero andati veramente.
Il tempo di togliere il dito dalle labbra dell’eroe che questi sbuffò arreso. «Più o meno», disse, dandole di spalla, immediatamente ricambiato, prima che scoppiassero a ridere entrambi.

 

Erano stati così vicini al dire e al fare qualcosa che avrebbe potuto cambiar loro la vita…

No, non “avrebbe potuto”, “l’aveva” cambiata. Si erano finalmente ritrovati e non sarebbero tornati indietro, non volevano e non potevano tornare indietro.

 

All’orizzonte una manta saltò maestosa nell'oceano, scagliandosi contro i primi raggi del sole.

Chiamami

Mar. 31st, 2019 07:36 pm
lancethewolf: anatra col guscio da tartaruga (Default)

Titolo: Chiamami

Cow-t 9, settima settimana, M6.
Prompt: “Blu”
Numero parole: 608
Rating: Verde
Fandom: The Legend of Korra

Introduzione: [Coffeshop!AU] Asami è entrata in quel caffè quasi per sbaglio, ma quel giorno la vita per lei aveva in serbo una sorpresa.
Genere: Romantico, Fluff
Coppia: Asami/Korra
Avvertimenti: Yuri, AU

 

--- --- ---

 

Asami era lì, di nuovo, seduta al tavolo della caffetteria.

Osservava attraverso i vetri la finestra del suo ufficio, al quarto piano del palazzo di fronte.

Sospirò appena. Quella situazione era assurda: erano giorni che andava in quel locale, sempre alla solita ora, si sedeva, ordinava il caffè alla cameriera, lo beveva e poi tornava nel suo ufficio.

Giorni, esattamente da quando quella caffetteria era stata aperta, e dire che all’inizio non voleva neanche entrarci poi una collega le aveva chiesto di accompagnarla, aveva accettato e… l’aveva vista e le si era bloccato il cuore.

Korra, questo era il suo nome, a dire dell’etichetta sulla divisa. Pelle scura, un caschetto color cioccolata che le incorniciava il viso e faceva risaltare due incredibili occhi blu.

Non aveva mai visto un blu come quello nel suo sguardo, così limpido e caldo da far impallidire il cielo, così intenso da mozzarle il respiro.

Occhi che brillavano come gemme preziose e… preziosi lo erano davvero. Preziosi e splendenti come il sorriso che le dedicava ogni mattina. Quel sorriso del quale sentiva di non poter più fare a meno e che l’aveva costretta a domandarsi come avesse fatto a vivere senza, prima d’allora.

E dire che non aveva mai creduto ai colpi di fulmine, invece… invece… eccola, seduta in quella caffetteria di domenica mattina, cotta di una ragazza che nemmeno sapeva il suo nome.

La cercò con lo sguardo tra i tavoli, ed eccola, bellissima, sorridere ad alcuni ragazzi.

Quei tipi sembravano corteggiarla, lei invece non riusciva a chiederle un bicchiere d’acqua senza balbettare. Avrebbe voluto parlarle davvero, invece d’osservarla di nascosto, mentre non guardava, come in quel momento.

Un sospiro le sollevò le spalle, mozzato dallo sguardo di Korra.

Quegli incredibili occhi blu si erano gettati nei suoi senza preavviso.

 

Korra le sorrise.

 

Asami deglutì a vuoto, ma… come poteva essere diversamente?

Distolse lo sguardo intimidita, tornando ad osservare fuori. 

Passò solo qualche minuto, quando…

“Scusami se ti ho fatta aspettare.” Korra era accanto a lei: posava sul tavolo una tazza di caffè e una bella fetta di torta.

Asami sfarfallò le lunga ciglia nere, stupita: non aveva ancora ordinato.

“Lungo, schiumato e con un pizzico di cannella, proprio come piace a te!” aggiunse Korra, mandandole le guance a fuoco.

“Gra… grazie”, balbettò, ricevendo in cambio quel sorriso che le ricordava perché fosse bello vivere.

“Grazie a te!” Korra abbracciò il vassoio e si voltò per andare.

“E… la torta?” domandò Asami.

L’altra ragazza le fece l’occhiolino da sopra una spalla. “Offre la casa, per l’attesa”, spiegò, prima di allontanarsi.

Asami osservò il liquido caldo ondeggiare nella tazza tra le sue mani.

Sorrise come una sciocca: Korra conosceva i suoi gusti. Era il “solito”, ma... lei non era certo l’unica cliente della caffetteria.

 

Era ora di pagare. Si accostò alla cassa.

“Bolin, faccio io. Ci penso io alla signorina!” Korra arrivò trafelata, scostando il cassiere.

Il ragazzone alla cassa, batté le palpebre sorpreso, ma la lasciò fare.

Asami porse il denaro alla ragazza incapace di proferire parola.

“Asami giusto?” le chiese.

Lei sgranò gli occhi, mentre il cuore perse un battito: conosceva il suo nome.

Annuì in leggero ritardo, ma almeno annuì.

“Non credevo lavorassi anche di domenica.”

“No… io… volevo un caffè.”

Che razza di risposta era?

Korra sorrise, porgendole il resto. “Ho il pomeriggio libero. Se ti va, chiamami”, disse. Le guance le si arrosavano appena.

 

Asami fuori dal locale aveva dovuto ricordare ai suoi polmoni di riprendere a respirare.

Chiamarla! Mi ha chiesto di chiamarla”, il cuore le batteva all’impazzata, mentre lo sguardo scendeva sulla mano serrata attorno al bigliettino che la ragazza le aveva passato insieme al resto.

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Titolo: The Legend of Eiji - La cronaca, Il piccolo Avatar (cap. 10)

Cow”t 9, settima settimana, M11.
prompt: “La morte”
Numero parole: 4644
Rating: Verde
Fandom: The Legend of Korra

Introduzione: [La storia si svolge diversi anni dopo la morte dell’Avatar Korra.]
La morte, L’arcano senza nome, la tredicesima carta dei tarocchi. Rappresenta la fine, il mutamento, la rinascita. Chi meglio dell’Avatar può incarnare tutte queste caratteristiche?
Eiji e i suoi guardiani sono finalmente giunti a casa di Fen”Shu e per la vecchia Daiyu è giunto il momento che tanto temeva, quanto desiderava, rincontrare gli occhi di suo figlio, dentro il corpo del nuovo Avatar.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale
Coppia: nessuna
Avvertimenti: nessuno

 

--- --- ---

 

 

Il piccolo Avatar

 

La serata stava passando tranquilla, mentre Fen Shu osservava fuori dalla finestra della cucina.

L’acqua per la sua tisana sembrava non volersi decidere a bollire.

Si sentiva strana, non turbata di per sè ma… perplessa, ecco, questa era la parola giusta: dopo che quello zuccone dalla pelle scura di suo cugino si era trascinato via la sua Min, lei era rimasta imbambolata a fissare la porta socchiusa, mentre sentiva i passi dei due ragazzi allontanarsi per le scale.

 

Quel comportamento non era da Jin. Suo cugino era stato piuttosto strano, considerando che era passato diverso tempo da quando avevano finito di pranzare, era impossibile che non avesse ancora finito di rassettare la cucina. No, non era davvero da lui, per questo era scesa quatta quatta fino ad arrivare a spiare dalla porta socchiusa della cucina.

Contrariamente a quanto si aspettava, però, Jin e la sua migliore amica stavano davvero lavando i piatti, o per meglio dire: Jin li lavava e Min li asciugava.

Malgrado tutto qualcosa ancora non le tornava: sul momento aveva pensato che il ragazzo, trovandosi costretto a cucinare per così tante e, oltretutto, dopo aver dovuto sistemare i danni causati dalla baruffa di Kiki e Miyuri, fosse stato semplicemente stanco.

 

Fen Si era sentita dispiaciuta. Jin stava facendo le faccende di casa tutto da solo a causa della scommessa persa, ma certo non erano stati previsti degli ospiti quando lei gliel’aveva lanciata.

Certo una scommessa era una scommessa e probabilmente se fosse stata lei al suo posto il cugino non si sarebbe fatto certo impietosire, ma Fen Shu era Fen Shu e non trovava giusto che il ragazzo si facesse carico di tutto il lavoro. Così, quando era stato il momento per Min di tornare a casa lei, con la scusa di accompagnarla, si era offerta di andare a fare la spesa al posto del cugino trovandosi già di strada.

Ahhh, quel cretino invece di essere contento, aveva avuto anche il coraggio di dirle che non si fidava e che sarebbe stato meglio che andasse anche lui per controllasse che non facesse guai.

Era stata così costretta a rivelargli che lo stava facendo proprio per concedergli un po’ di respiro, per lasciargli tempo di riposare, ma era stata ripagata appieno dalla faccia assurda che Jin aveva messo su. L’aveva preso contropiede, una cosa che capitava di rado, e Fen non aveva potuto fare a meno di gongolare di quella sua espressione meravigliata. Questo, almeno fin quando, arrivato il momento di andare, non le aveva presentato un “blocchetto” di fogliettini.

 

Fen Shu sbuffò nel ricordare con quanta scrupolosità avesse appuntato (e spiegato) ogni singola voce di quella che si era poi rivelata la lista della spesa (una assurda lista della spesa), divisa negozio per negozio e… ogni biglietto indirizzato ai vari titolari delle varie rivendite.

Il sorriso tronfio di Jin nel dirle che sarebbe bastata semplicemente che desse il foglietto chi era indirizzato e nessuno avrebbe corso rischi di sorta le aveva istantaneamente fatto venire voglia di prenderlo a borsettate li sulla soglia di casa, incurante di dare spettacolo davanti ai passanti.

 

Ma per chi diavolo mi ha presa quell’idiota?! Per una di quelle ragazzine cretine tutte trucco e niente cervello che ogni tanto si porta a letto?” Sbottò dentro di sé mentre, spento il fornello, versava l’acqua bollente nella teiera che l’attendeva sul tavolo. “Colpa mia, non dovevo essere tanto gentile, così imparo a fagli un favore! Giuro che non ci sarà una prossima volta. A costo di impiccarmi con le mie stesse mani.

Naturalmente Fen Shu non avrebbe rivelato mai a quell’odioso “affare” che si ritrovava per cugino, che aveva evitato la figuraccia per un soffio quando, imboccata la via di casa, si era trovata in mano il biglietto per il Signor Wong ed era tornata di corsa indietro fino alla macelleria.

 

Questo non voleva dire che fosse imbranata come credeva Jin, distratta, questo sì, ma non imbranata. Aveva percorso tutto il tratto di strada da casa sua a quella di Min sovrappensiero, mentre l’amica le faceva il resoconto della telefonata con il professore Chao Chin riguardo all’appuntamento con l’Avatar.

Era stata brava Min. Aveva riferito all’uomo che l’Avatar “le aveva lasciato detto” che si sarebbe fatto vivo l’indomani per finalizzare i termini del loro incontro, rimanendo totalmente sul vago.

 

Che vergogna!

La sua amica era così sveglia (beh, quando non c’era Jin nei paraggi) mentre lei era sempre così sbadata.

 

Non aveva più ripensato al fatto dei piatti sporchi fino a ché, rientrando per la cena, mentre Jin apparecchiava, la nonna non aveva commentato quanto fossero puliti i piatti.

“Senza neppure un alone”, aveva detto, facendo ridacchiare Fen.

“E certo, nonna. Normalmente li lava e li lascia asciugare all’aria così come vengono, mentre oggi aveva Min come asciugatrice di piatti d’eccezione”, ricordava bene di avergli detto.

La sua nonnina però l’aveva guadata stupita, chinando la testa di lato e commentando poi: “Sono diventata proprio sbadata con la vecchiaia allora, nipotina mia! Devo aver confuso un giorno con un altro, perché ero sicura, quando sono uscita per tornare in pasticceria, che Jin avesse appena finito di lavare i piatti tutto da solo, e che li avesse come al solito ordinati sul lavello perché si asciugassero da soli.”

Mentre l’anziana signora si allontanava, ridacchiando sulla sua supposta sbadataggine, Fen Shu era rimasta stupita, si era fatta poi pensierosa: Possibile che la nonna si fosse davvero confusa?

 

Nonna Daiyu aveva una memoria di ferro, checché ne dicesse quando le conveniva, non poteva essersi sbagliata. Eppure lei aveva visto chiaramente i piatti sporchi di bollito.

Bollito?” d’improvviso le era giunta una realizzazione: i piatti erano sporchi, ma ricordava chiaramente che i loro ospiti avevano così tanto gradito il pasto di mezzodì da lucidare letteralmente i piatti. Mentre quelli che aveva visto lei erano unti come se gli fosse stato versato sopra di proposito dell’unto.

Possibile che Jin avesse lavato tutto per poi risporcarlo con gli avanzi del brodo, che aveva detto di voler conservare per l’indomani, apposta per trascinare Min di sotto in cucina?

Ma a che scopo?

 

Oh spiriti!!! Vi prego non ditemi che ha incominciato un altro dei suoi esperimenti sociali e ci ha infilato in mezzo la mia amica!” Pensò disperata mentre si versava una bella tazza abbondante di tisana, prima di farsi scivolare lo scialle sulle spalle.

Malgrado fosse primavera inoltrata, le serate erano ancora fresche e a lei, da sempre, piaceva andarsi a sedere sulla panca del portico dopo cena, mentre si sorbiva la sua tisana.

Era un abitudine vecchia di anni: quella sotto i glicini era la panca preferita del nonno, ed era questo a rendere quella sua piccola abitudine tanto cara.

 

 

Daiyu se ne stava appoggiata alla vetrata della veranda che dava sul cortile esterno della sua abitazione, osservava incuriosita un ragazzo seduto su una moto, appena arrivato.

Per un attimo si era domandata che cosa cercasse un tizio del genere, vestito di pelle su una moto nera fiammante, proprio davanti al cancello della sua casa, quando aveva visto suo nipote uscire e andargli incontro. Quel ragazzo si era tolto il casco per salutare Jin, scoprendo il volto di quel monello di Sue, ed improvvisamente la sa mente si era concentrata sul come intervenire per evitare che il nipote salisse su quel bolide.

Purtroppo per lei, Jin, nell’infilarsi il casco che Sue gli passava e salire in sella, era stato più rapido del suo pensiero.

 

Sospirò. Jin era abbastanza grande da saper badare a se stesso, ormai. Non sarebbe stato carino da parte sua impicciarsi, anche se rimaneva sempre il suo amato nipotino.

Ok, per questa volta si sarebbe limitata a supplicare gli spiriti che, quel debosciato di Sue, non decidesse di andarsi a schiantare a tutta velocità contro un muro, proprio quando il suo adorato nipote era con lui, ma se gli spiriti non l’avrebbero ascoltata? Ahhh, cosa avrebbe fatto?

Mai più uscite non autorizzate su mezzi più veloci di una bicicletta, parola di Daiyu”, si disse.

 

“Ehi amico, fai piano, mica stai montando su un tronco d’albero!” La voce di Sue le giunse dal vetro socchiuso della veranda.

“Non fare l’esagerato, Su, non te la rompo mica!” rispose il suo pargolo (che del pargolo, ormai, aveva davvero molto poco, ma non agli occhi di sua nonnina), scatenandole un sorriso.

Non fare l’esagerato? Ehi, dico, ma l’hai vista bene? Slanciata, bellissima, con tutte le curve al posto giusto…”

“Stai parlando della moto, vero?” domandò Jin, perplesso.

“Chiamarla Moto è limitativo. Senti la sua voce”, disse l’altro sgassando quel minimo necessario per mandarla su di giri. “Sentila tra le gambe. È viva e adoro quando fa le fusa come una gattina.”

“Sei fuori!” se la rise Jin. “Ne parli quasi fosse la tua ragazza.”

“Eretico!” sbuffò l’altro. “È meglio di una ragazza: esegue alla lettera quello che voglio da lei, abbiamo gli stessi gusti. Pensa: adoriamo tutti e due l’alta velocità!”

Un attimo di silenzio prima che entrambi i ragazzi scoppiassero a ridere.

 

Daiyu pensò che quei due si fossero davvero scelti nel mazzo.

 

“Piuttosto come mai hai voluto che ti passassi a prendere?” chiese ancora il moro con gli occhi grigi.

“Uff!” sbuffò stancamente il nipote. “Giornata pesante, avevo voglia di distrarmi, ma un po’ meno di farmela a piedi fino al pub.”

“Interessante, quindi ha ragione tua cugina quando dice che mi cerchi solo quando ti fa comodo.”

“Non dire cretinate, ci vediamo tutti i giorni.”

“Sì, certo, insieme a miliardi di altre persone.”

“Sai, non credo che al Pub di Hoshi, c’entrino miliardi di persone.”

“Bah, una più, una meno, il concetto non cambia”, commentò Sue, facendo spallucce, mentre Jin ancora se la rideva, prima di rinfilarsi il casco e raccomandarsi: “Tieniti forte, questa bellezza, non fa solo le fusa, sa anche ruggire.”

 

“Ti faccio sentire come ruggisco io, se stasera non mi riporti a casa tutto intero il nipote.” Minacciò sottovoce Daiyu, mentre la moto con i due ragazzi si allontanava.

“Avete cresciuto dei bravi ragazzi. Hanno i vostri stessi occhi.” Giunse inaspettata la voce dell’Avatar alle sue spalle.

A Daiyu per un secondo mancò il fiato nel sentire quella voce, ma poi sorrise, socchiudendo gli occhi e volgendosi verso il ragazzo.

“Avatar Eiji”, salutò, mentre il Maestro degli Elementi si accostava a quella stessa vetrata, poggiandosi allo stipite accanto alla donna. “Fen, lei sì, ma Jin… Jin ha gli occhi di sua madre e per il resto è tutto suo padre.”

 

 

Ling, dal marciapiede che costeggiava la casa, osservò il dominatore dell’acqua salire sulla moto di quel giovane dagli occhi grigi. Per sua abitudine aveva fatto un giro di ronda all’esterno, per assicurarsi che non ci fosse nulla di strano.

Chissà se quel ragazzo è davvero il Maestro dell’Acqua che il custode cerca da quasi sei anni ormai”, pensò tra sé e sé, arrivato ormai in prossimità dell’ingresso. Si volse verso la casa. Dietro la vetrata vide chiaramente la sua Zietta parlare con l’Avatar.

 

La sua famiglia aveva aiutato la vecchia Daiyu a scomparire anni prima e questo era un segreto che avevano tenuto per loro a lungo. Quella donna aveva meritato un po’ di pace, dopo tante sofferenze passate.

Daiyu e suo figlio erano stati tra i guardiani dell’Avatar prima che lui ed i suoi amici nascessero. Da ragazzino non aveva capito come mai i suoi genitori ritenessero tanto gravoso ritenere segreto quello che avevano fatto, ma adesso… adesso che era diventato lui uno dei guardiani dell’Avatar, aveva capito cosa volesse dire dedicarsi anima e corpo a una persona, a un ideale; non riusciva a immaginare più una vita diversa da quella che faceva e il solo pensare ad una eventualità del genere gli dava le vertigini.

Era come se, prima di aver conosciuto Eiji, lui non esistesse; non veramente almeno.

Trovarsi senza l’Avatar del Fuoco sarebbe valso come tornare ad essere la nullità che sentiva di essere stato, perché prima del loro incontro nulla aveva avuto senso, nulla era davvero stato importante rispetto a quanto stavano compiendo seguendo il destino del Custode dell’Equilibrio. 

 

Ling decise di rientrare in casa evitando di essere scorto dalla padrona di casa e dal Suo Signore: non era certo tanto difficile ritornare sui suoi stessi passi e scavalcare un muro.

Si ritrovò così sul retro della casa accovacciato sul muretto proprio all’altezza della camera di Mai.

Le luci erano spente e da quel poco che percepiva il suo senso sismico, la dominatrice stava cercando di prendere sonno. Dal battito del cuore della ragazza gli fu immediatamente chiara tutta la sua ansia.

Probabilmente l’incontro tra l’Avatar e la sua vecchia guardiana la turbava quanto lui.

In un altro momento sarebbe andato ad abbracciarla, a stringerla a sé per rassicurarla, ma… sebbene una volta fossero stati molto vicini, da quando l’avventura al seguito dell’Avatar era iniziata lei aveva preferito dedicarsi anima e corpo ai due gemelli del fuoco. E, per quanto ci fosse stata sempre nei momenti più bui, tra loro qualcosa era cambiato, si era come rotto, rovinato.

 

Sospirò pesantemente. Per assurdo, per quanto bramassero avere momenti di tranquillità, proprio come quello che stavano vivendo, una parte di loro temeva quello che avrebbero portato con loro: con la tranquillità la mente si permetteva di spaziare in verità diverse, che nell’urgenza venivano tralasciate. Verità per alcuni versi dolorose, per altri necessarie a capire meglio se stessi.

 

Si lasciò scivolare seduto su quel muretto, portandosi un ginocchio al petto, trovare stranamente piacevole il pensiero di vegliare per un po’ su quella che era stata la sua migliore amica, anche se nascosto dalle fronde dell’albero che si ergeva tra quel muro e la casa.

Ricordò di quando era lei fuori la sua finestra, in attesa che nessuno la vedesse per tirare una pietra o una scarpa, solo per attrarre la sua attenzione; per poi trascinarlo sul tetto della sua casa solamente per guardare la luna e fantasticare su cosa sarebbero diventati da grandi.

 

Si volse a guardare in cielo quella luna tanto meravigliosa quanto enorme in quel periodo dell’anno.

 

“Quanti raffreddori ci siamo presi addormentandoci sul tetto, esausti dalle nostre stesse chiacchiere, ti ricordi, Mai?” Sorrise sereno a quel pensiero. Una parte di lui era convinta che, per quanto non avessero più avuto modo di parlare dei vecchi tempi, anche lei non poteva non pensarvi con tenerezza.

 

 

“Maestra Daiyu”, saluto di rimando l’Avatar del Fuoco all’anziana Guerriera Kyoshi. “Spero di non essere arrivato prima di quanto si aspettasse.”

“A dire il vero, sei piuttosto in ritardo, ragazzino”, commentò lei con tono divertito. “Dovresti saperlo che non si fanno aspettare le signore.”

Eiji, sorrise. “Avete ragione, ma…”

“Niente ma”, l’interruppe Daiyu, passando velocemente una mano tra lei e il giovane. “Sei in ritardo, ammetti le tue colpe.” Il tono canzonatorio mal si accostava a quanto dichiarava.

Eiji abbassò il capo, allargando maggiormente il sorriso. “Ammetto le mie colpe, ma se avessi saputo dove foste, sarei giunto molto prima da voi.”

La donna sospirò, facendosi seria. “Dritto al punto, vedo.”

Il ragazzo difronte a lei annuì. “Perché non avete lasciato traccia di voi quado avete abbandonato l’Isola Kyoshi?”

“Avevo il cuore a pezzi, ragazzo mio, un marito e un figlio martoriati, un orfano da crescere.”

“A quanto pare, andare al punto non è solo una mia prerogativa.”

Questa volta fu lei a sorridere, abbandonando, almeno apparentemente, quel velo di serietà. “Ho sperato che questo giorno non arrivasse mai. Ma sapevo che, prima o poi…”

“Mi dispiace” intervenne Eiji, interrompendola.

“Non dire fesserie, sei l’Avatar, ti prenderai quello che vuoi, dicendo a te stesso che è per il bene dell’umanità e mi spezzerai di nuovo il cuore.”

“Non costringo nessuno a…”

“Zitto, signorino”, lo ammutolì, puntandogli un dito sulle labbra. “Ho servito il Loto Bianco, ho militato sotto Korra e ho cresciuto Ruri come fosse mio, dopo che il padre l’aveva abbandonato. Sono stata accanto a ben due Avatar, quindi non raccontarmi favolette. Credi davvero che non sappia come funzionino le cose, o quanto sappiate essere carismatici voi Custodi? Gli altri pensano di avere scelta, ma non ce l’hanno, sono troppo abbagliati dalla vostra luce per vedere altro.”

 

Eiji rimase a capo chino, non riuscendo a trovare le parole per ribattere a quanto la donna aveva appena detto.

Rimasero così, in silenzio, per diversi, interminabili secondi, fin quando il Custode non trovò il coraggio di dire: “Quando a sedici anni è stato rivelato il mio destino, gli Avatar che mi hanno preceduto sono piombati nella mia vita.”

 

Una pausa in quel dire costrinse Daiyu a cercare gli occhi rossi del giovane: lo vide sorridere malinconicamente mentre alzando il volto verso le luci che illuminavano quella splendida serata, aggiunse: “La prima cosa che ho fatto è stato andare all’Isola Kyoshi per cercarti, mamma.” La voce aveva assunto una nota fanciullesca, infantile.

“Ruri?” domandò, sentendosi piombare addosso tutto il dolore passato. Aveva temuto che quel momento arrivasse. “Come potevo, piccino? Come potevo rimanere. Ti ho visto morire. Ti ho visto morire due volte, non potevo sopportare di vederti crescere ancora, sapendo che saresti morto di nuovo e di nuovo.”

“Mi hai pensato almeno un pochino in questi anni, mamma?”

“Non ho smesso un solo giorno di farlo”, rispose a quel tono di voce che tanto bene conosceva, mentre le lacrime scendevano a rigarle il viso.

“Sai, ho pensato che non mi volessi più bene dopo la morte di Noraq, io non mi sono voluto più bene.”

Daiyu l’afferro di getto e se lo tirò contro, stringendolo tra le braccia. “Non pensarlo. Ho solo creduto di fare la cosa migliore per tutti.”

Eiji si piegò quanto gli era possibile per lasciarsi avvolgere dalle braccia della donna, ma non aggiunse nulla a quanto appena udito.

Lei, dopo poco, continuò tra le lacrime: “Eravamo distrutti dal dolore. Tekora aveva perso non solo te, ma anche Noraq. Era fuori di sé, non parlò per giorni. Per giorni non guardò il volto del suo bambino, non ci riusciva. Il mio amato Dewei aveva ti aveva perso, aveva perso il suo bambino, ed era ferito. Jin quella notte non perse solo una gamba, ma un fratello e il suo migliore amico. Dovevo fare qualcosa e… lasciai il Loto Bianco. Feci in modo che l’ordine perdesse le nostre tracce e ci trasferimmo qui. Chi avrebbe mai pensato che una semplice pasticciera potesse essere in realtà una guerriera del Loto. Oltretutto Dewei era nato in questa città, l’amava molto e… le sue ferite erano talmente gravi, Ruri. Sopravvisse solo tre anni, prima di chiedermi di lasciarlo andare.” La voce di Daiyu era spezzata dal pianto. “Tutt’ora Jin e Tekora non si fermano nello stesso posto per più di un anno e mio figlio maggiore, ti ricordi di lui? Beh, lui e sua moglie per anni hanno vissuto passando da una città all’altra, per evitare che ci scoprissero, fin tanto quella vita non li ha allontanati.”

“Sì, mi ricordo di lui.” Rispose a quel punto quel giovane Avatar. “Ero presente quando è nata sua figlia, è… è Fen, non è vero?”

Lei annuì ancora stretta al ragazzo. “Aveva poco più di un anno quando sei scomparso.”

“Jin è il figlio di Noraq?”

Daiyu annuì ancora.

“Lo sa. Sa che suo padre ha perso la vita nel tentativo di salvarmi?”

“I ragazzi non sanno nulla. Erano talmente piccoli… è stato il modo migliore per proteggerli.”

“Non gli hai mai parlato di me. Hai vissuto questi ultimi anni come se non fossi mai esistito.”

“Non dirlo. Te l’ho già detto, non è passato giorno…”

“Ma non sanno che il Loto ti affidò un orfano nato lo stesso giorno della morte di Korra, chiedendoti di addestrarlo perché i saggi avevano visto in lui il nuovo Avatar.”

“Ruri, io…”

“Il brutto, mamma, non è morire, è essere dimenticati. Per me erano parte della mia vita, della mia famiglia. Li ho tenuti in braccio, li ho cullati, quando…” anche la voce dell’Avatar, si fece rauca per le lacrime. “…Quando ti ho vista e ho capito. È stato come essere stato abbandonato due volte.”

Daiyu lo strinse a sé come più poteva. Non riusciva a trovare le parole per dirgli che si sbagliava e sperò che quel gesto gli infondesse il giusto valore dei suoi sentimenti e di quella scelta dolorosa, sperò più per lei che per colui che era stato il suo bambino.

“Anche papà è morto odiandomi, come il mio vero padre?”

“Smettila, ti prego! Dewei ti adorava, non poteva odiarti. Io non ti odio. Ho preso una scelta… quella che mi sembrava la migliore, l’unica, per risollevare la mia famiglia, ma non c’è stato giorno…”

Non c’è stato giorno…” la interruppe lui, ripetendo le sue parole e accennando a un ghigno nel farlo. “…Ma nessuno di voi mi ha cercato. Ho passato anni a vegliare la mia tomba nel giorno della mia scomparsa, nella speranza di vedervi portare un fiore e avere così la possibilità di riabbracciarvi, ma… nulla. Eravate la mia famiglia e mi avete lasciato solo.”

“Mi dispiace, Ruri. So che per te è difficile crederlo, ma ognuno di noi avrebbe voluto… ognuno di noi ricordava quel giorno e… non è stato facile trovare conforto lontani da quello che erano rimasto di te, piccolo mio.”

“Siete scappati come è scappato il mio vero padre, dopo che la donna che mi aveva messo al mondo era morta. Come voi, temeva per la sua vita, rimanendo accanto all’Avatar. Proprio come voi…”

“Quindi… è questo che volevi dirmi? Che in realtà sei tu ad odiarmi per quello che ho fatto?”

Ancora piombò il silenzio mentre le braccia del ragazzo si strinsero maggiormente attorno alla donna.

“Non posso. Non potrei mai odiarti.”

“Allora, ti prego, non credere che io possa o che possano i tuoi fratelli. Se solo avessi immaginato incontro a quale tortura saresti andato, non lo avrei mai fatto… te lo giuro, piccolo mio, te lo giuro.”

 

Rimasero stretti a lungo in silenzio, tra le lacrime, fin tanto che il piccolo Avatar, stanco, non permise di tornare al nuovo Custode.

 

 

Mai si sentiva ansiosa, chiusa nella sua camera.

Conosceva la storia del piccolo Avatar e temeva che per Eiji parlare con la vecchia Daiyu fosse una prova troppo pesante da superare.

Era esausta, ma quel pensiero la faceva voltare e rivoltare tra le coperte, impossibilitata a prendere sonno.

I raggi fiochi della luna, che filtravano attraverso le tende tirate, disegnavano pallidamente i contorni della sua sagoma contro il muro.

Sorrise stupidamente nel rendersi conto di quel chiarore, ripensando a quando, da bambina, ogni volta che la luna era tanto luminosa in cielo, correva a tirare Ling giù dal letto per portarlo con sé a guardare il cielo.

Il buio le faceva tanta paura, ma luna era talmente bella. Con il suo amico la paura scompariva, era come se accanto a lui tutto fosse migliore, anche la notte diventava bellissima con la sua trapunta di stelle.

Quando abbiamo smesso di arrampicarci sui tetti e sognare?” Chiese un po’ a sé stessa un po’ all’assenza del suo enorme amico. “Non lo ricordo, ma nulla è destinato a durare per sempre. Ne sono successe tante. Sono stata costretta a scegliere tra realizzare i miei sogni o vegliare sull’Avatar. Ma nessuno potrà mai portarmi via quei ricordi.” Quel pensiero, malgrado la riempisse di nostalgia le regalò un sorriso; un sorriso che, almeno per pochi istanti, allontanò l’agitazione dal suo cuore.

 

 

Eiji era stato chiaro: voleva parlare da solo con la padrona di casa.

Ma Fumio aveva visto il fratello mutare troppo repentinamente i suoi atteggiamenti da quando aveva riconosciuto la persona di Lady Daiyu nella nonnina di Fen Shu.

Eiji si era fatto silenzioso e attento, Fumio sapeva che qualcosa aveva cominciato a roderlo da dentro e non si trattava solamente della possibilità di apprendere il domino dell’acqua dal nipote dell’anziana signora.

No, era qualcosa di più atavico, qualcosa di più profondo che albergava dentro di lui.

Fumio era un membro del Loto Bianco e se c’era qualcosa che doveva conoscere più dell’arte della spada e del dominio del fuoco, era la storia dei Custodi dell’Equilibrio.

 

L’Avatar che aveva preceduto Eiji era stato addestrato dalla donna in questione e cresciuto in grembo alla sua famiglia. Questa, insieme al figlio minore erano poi divenuti suoi guardiani: una guerriera Kyoshi e un giovane Dominatore della terra addestrato nell’arte dei guerrieri Dai Lee. A chiudere il gruppo c’era stata poi una dominatrice della palude e quello che era il suo compagno, un abile dominatore delle energie fredde. Ancora non erano stati designati i maestri del fuoco e dell’aria al giovane Avatar che venne richiesto il suo intervento affinché le lotte tra le Tribù dell’Acqua terminassero e, seppure non fosse pronto, non fu in grado di sottrarsi al suo destino, così rispose a quel richiamo d’aiuto. Rispose, ma non tutti volevano la pace. Non tutti volevano sottostare al verdetto del Consiglio delle Tribù e di quello che per loro era poco più di un moccioso. Organizzarono un attentato: erano in molti e bene armati. Poco poterono fare, solo quattro persone e il giovane Avatar contro un esercito.

Aveva 13 anni, l’Avatar Ruri, quando abbandonò questo mondo, solo tredici anni. Si racconta che i lamenti degli spiriti echeggiarono sofferenti per giorni attorno ai portali e che il grande albero nella palude perse gran parte delle sue foglie a causa di quell’atto abominevole.

 

Quanto ci fosse di legenda, o quanto di verità, in quella storia, Fumio non lo sapeva, ma era certo che se esisteva qualcuno che conoscesse quella storia meglio di ogni altro, quello era sicuramente il suo gemello, l’Avatar.

 

Aveva promesso di non intervenire, ma la sua indole lo tormentava e non lasciò passare molto che quasi senza accorgersene si ritrovò affacciato verso il cortile interno della casa nel tentativo di accertarsi che Eiji stesse bene.

Purtroppo per lui l’Avatar non si trovava lì, ma scorse sotto il pergolato, infagottata e seduta su una panca di legno, la ragazza dai capelli rossi.

 

Sospirò, osservandola gustare del liquido caldo dalla tazza che teneva tra le mani.

Forse quella ragazza sarebbe potuta essere un buon diversivo, un modo per evitarsi di cedere alla sua esagerata iperprotettività e lasciare al fratello il tempo che desiderava.

 

 

Fen se ne stava raggomitolata nel suo scialle, a godersi ancora qualche minuto di quella splendida serata, quando un ticchettare di unghiette accanto a lei l’incuriosì, costringendola a voltarsi.

Il topino bianco dell’Avatar si era arrampicato su quella panchina e nel momento in cui si era voltata si era come paralizzato fissando attento i suoi occhi e annusando curioso l’aria.

Ora che poteva guardarlo bene era di un bianco candido con due occhi rossi brillanti come rubini. Al collo portava un nastro scarlatto con un ciondolo dorato che rappresentava il simbolo stilizzato della Nazione del Fuoco.

 

 

Fumio arrivò in prossimità della nipote della vecchia Daiyu, quando vide quel mostriciattolo di Kiki, arrampicarsi sulla panca dove questa sedeva.

Sorrise divertito: quel topo, proprio come suo fratello, non sapeva rispettare le regole, poco contava che Eiji gli avesse intimato di non uscire dalla stanza, lui aveva preferito rischiare di incrociare la grossa gatta bianca di quella casa piuttosto che sottomettersi.

Sospirò arreso. L’intervento di quel topino, involontariamente, gli aveva dato il tempo di riflettere meglio su quella situazione ed a capire se Fen Shu aveva deciso di starsene da sola in veranda, probabilmente era perché aveva qualcosa a cui pensare.

Lui e il restante del suo gruppo erano ospiti in quella casa, quindi perché dare a quelle persone un ulteriore fastidio?

Fece spallucce. Sarebbe tornato a cercare di quietare quella sua sciocca preoccupazione nella stanza che avevano assegnato a lui e al fratello. Si soffermò solo qualche istante per ripensare alla scena che si era trovato davanti prima che arrivasse quel bianco disturbatore. Davvero un bel quadretto infondo. Una ragazza persa nei suoi pensieri che osservava il cielo, gustandosi una tisana fumante, avvolta in un calda stola, sotto un pergolato di glicini bianchi.

 

Sorrise ancora, era finalmente pronto a ritornare sui suoi passi.

Il Bullo

Mar. 31st, 2019 07:46 pm
lancethewolf: anatra col guscio da tartaruga (Default)

Titolo: Il Bullo

Cow-t 9, settima settimana, M11.
Prompt: “L’appeso”
Numero parole: 6621
Rating: Verde
Fandom: Voltron: Legendary Defender

Introduzione: Keith aveva agito d’istinto, non avrebbe creduto che un pugno potesse cambiare tanto il suo modo di vedere le cose.
Note: La carta dell’Appeso viene rappresentata come una persona sospesa per una sola gamba. Ha le mani libere e non è tanto lontana da terra. Potrebbe liberarsi, ma non lo fa. Preferisci rimanere così, in stasi, quasi fosse in attesa di qualcosa. In questa storia ci sono due ragazzi appesi: Lance, fisicamente, deciso a voler essere il fautore del suo destino e Keith, interiormente, incerto su cosa stia realmente facendo alla Garrison e se quello sia davvero il suo posto.
Genere: Introspettivo, Scolastico
Personaggi: Hunk, Iverson, Keith, Lance, Shiro
Avvertimenti: Missing Moments

 

--- --- ---

 

 

Erano rimasti tutti sbigottiti dopo che Keith, senza preavviso alcuno, aveva colpito James in pieno volto. Certo non era un comportamento accettabile da un cadetto dell'esercito, benché meno dell'accademia aereospaziale, ma c'era da dire che James Griffin aveva parlato troppo e questa era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

 

Keith ne aveva mandati giù di bocconi amari durante quel periodo, ma quello... quello era stato davvero troppo: James aveva ricordato, per l'ennesima volta all'altro ragazzo, che non aveva una famiglia, che non aveva più dei genitori.
Tutti quelli che conoscevano lo, almeno di vista o ne avevano sentito parlare alla Garrison, sapevano o sospettavano che Keith fosse orfano, ma da qui a sbandierarlo proprio davanti ai ragazzi del corso che frequentava era stata ben altra cosa.

 

Keith non aveva resistito e il risultato finale era stato proprio quello: un pugno ben assestato e con tutta la forza che aveva in corpo contro il muso del compagno spocchioso.
Non passarono che pochi secondi e, prima che qualcuno potesse dire anche una sola parola, Keith scappò via, incurante degli allievi e dei professori che aveva intorno.


Sbigottiti. Erano rimasti tutti scioccati per quanto avvenuto, compreso lo stesso James. Tutti, ma c'era stato qualcuno che era sconvolto già prima di quel pugno e questo era stato Hunk.

 

Hunk era un ragazzone moro e dalla pelle scura, che frequentava lo stesso corso dei due litiganti e aveva sentito i brividi scorrergli lungo la schiena nell'udire le parole che James aveva rivolto a Keith Kogane.

Keith aveva sicuramente un brutto carattere, tutti lo sapevano e il suo comportamento durante la simulazione di volo era stato indubbiamente deprecabile, ma da questo al gettargli contro parole tanto cattive e dolorose c'era un vero e proprio abisso.

 

Ad Hunk era stato immediatamente chiaro che James Griffin voleva colpire per ferire e c'era riuscito.

Il colpo era andato a segno e aveva fatto male, terribilmente male e, come anche troppo spesso accade, la cosa si era rivoltata contro lo stesso James e quello disteso sul pavimento con il naso sanguinante alla fine era stato proprio lui.

 

Il peggio però per Hunk doveva ancora arrivare.

 

Lui e il suo compagno di stanza, Lance McClain, un ragazzino mingherlino dai cortissimi capelli castani, la pelle scura e gli occhi blu, se ne stavano passeggiando per i corridoi qualche minuto dopo il fattaccio.
Non parlavano, il ché era strano per Hunk dato che succedeva difficilmente, e assai di rado, che l'amico concedesse al mondo più di qualche attimo di silenzio quando si era in sua compagnia.

Lance se ne stava accanto a lui, manteneva il suo stesso passo, eppure aveva sul volto un’espressione pensierosa, mentre incedeva con le mani intrecciate dietro la nuca e lo sguardo rivolto al soffitto.

“Non lo so”, esordì all'improvviso, voltandosi verso di Hunk con tono meditabondo. “Forse dovremmo andare dalla preside”.
Come era prevedibile anche Lance, proprio come lui, non aveva gradito lo spettacolo a cui avevano assistito.

“Naaa”, commentò, trascinando la vocale neanche fosse il miagolio di un gatto. “Sono sicuro che ci hanno già pensato i professori. Quel pugno ha lasciato parecchi senza parole, anche lo stesso James”. Il tono di Hunk uscì anche troppo ironico sul finale. Non voleva essere cattivo, ma James per lui se l'era meritato e non era nella sua indole tenere per sé i suoi sentimenti.

“Uhm...”, mugugnò Lance a quelle parole, ancora pensieroso. “Non parlo del pugno. Parlo di quello che Griffin ha detto a Kogane.”

“E che differenza c'è, scusa?”

Lance stava per rispondere. Hunk aveva visto le parole cominciare a formarsi sulle labbra sottili, ma contrariamente a quanto il ragazzone dagli occhi scuri si aspettava, l'amico rimase semplicemente con la bocca socchiusa e lo sguardo inchiodato su qualcosa oltre le sue spalle.

 

I piedi di Lance si erano bloccati e quindi anche Hunk frenò il passo, per poi volgersi verso il punto dove il ragazzino guardava: la palestra.
La porta era aperta e, al di là degli spalti, sulle panche riservate alle squadre di pallacanestro, seduto a testa china a tenersi con una mano il polso, c'era proprio quel Keith Kogane di cui stavano parlando.
Si voltò nuovamente verso di Lance e fu un secondo: vide l'espressione del ragazzo farsi seria, sciogliere le mani da dietro la nuca, lasciarle cadere lungo i fianchi e stringere i pugni pronto a fare qualcosa.

Hunk lo sapeva, conosceva anche troppo bene il suo amico per non riuscire ad interpretare al primo cambiamento della postura cosa stesse per combinare.
Lo vide muoversi deciso verso la palestra e fu rapido a mettergli una mano sulla spalla per fermarlo.

“Ehi, ehi, ehi...”, disse, ritirandolo indietro e spostando entrambi dallo spettro della porta, facendosi forte della sua sorprendente stazza fisica. “Cosa pensi di fare? Vuoi farti ammazzare? Kogane ha già la luna girata, davvero vuoi rischiare che ti pesti come ha fatto con James? Poi diciamocelo, amico mio, tu sei tutto tranne che diplomatico”.

 

Il fiume di parole in piena che era cominciato a sgorgare dalle labbra di Hunk venne bloccato solo per un secondo dal “Ma...” di Lance, ripreso immediatamente da: “Non c'è ma che tenga.”
“La sua mano, Hunk!”
“Guarirà. Lascialo in pace. È un lupo solitario, lo sanno tutti, se ne starà un po' da solo e poi tornerà lo scontroso di sempre.”

A quelle parole Lance parve riflettere e ritornare sui suoi passi.

 

Hunk sapeva esattamente che si trattava solo di apparenza, dato che i pugni dell’amico erano ancora ben serrati. Fatto stava però che aveva ripreso a camminare; a camminare nella direzione sbagliata, ma almeno non era entrato in palestra e questo per Hunk era già un successo.



Keith se ne stava seduto su una delle panche al lato del campo da basket.

Nessuno frequentava quella palestra dopo le lezioni ed era un ottimo posto dove potersene stare da soli e in santa pace, quando occorreva.
Stringeva il polso della mano dolorante: era gonfio, bollente e pulsava come se fosse rotto, ma non lo era. Non era certo un medico, ma riusciva a muoverlo e questo doveva essere un buon segnale sul suo stato.
Provò per l'ennesima volta a ruotarlo: la fitta che gli saettò al cervello sembrava sopportabile.

Aprì e chiuse la mano e una sensazione non dissimile dalla precedente cavalcò i recettori del dolore fino a costringerlo a digrignare i denti sofferente.

Sul dorso della mano, le nocche erano percorse da un taglio superficiale che aveva smesso di sanguinare da un po’, ma che non aveva un bell'aspetto: anche questo aveva i bordi arrossati che stavano sfumando al viola e il ragazzo sentiva la pelle tirare fastidiosamente.

Mi verrà un bel livido”, pensò. “Nota per me stesso: in una scazzottata non mirare mai più alla bocca”. L'ironia amara che aveva per un attimo allontanato il dolore dai suoi pensieri non affievolì però il peso che le parole dette da James gli avevano lasciato sul cuore.

Keith ci era andato pensate: non gli era mai capitato di colpire qualcuno con così tanta forza e desiderio di farlo, eppure non se ne sentiva pentito, solo... triste, amareggiato.

 

Amareggiato sì, perché non avrebbe dovuto permettere a qualcuno di arrivargli talmente vicino da ferirlo, nessuno avrebbe dovuto fargli così male: nessuno aveva il diritto di parlare così dei suoi genitori, di… suo padre.

Nessuno. A costo di trovarsi a dover prendere a pugni l'intero istituto.

L'assurdità vera era però che, per quanto fosse brutta la ferita e per quanto gli dolessero i muscoli, a fargli davvero male era il petto, come se qualche cosa premesse contro la bocca dello stomaco al punto da rendergli faticoso respirare.
Qualcosa però lo scosse d'improvviso, anzi qualcuno.

Uno dei ragazzini del suo corso era praticamente apparso dal nulla e, di peso, gli si era seduto accanto con una valigetta del pronto soccorso tra le mani.
La mente doveva essere davvero troppo annebbiata dal dolore e dai pensieri per non rendersi conto di quel nuovo evento e... diamine, non era da lui!



Lance non aveva voluto sentire ragioni ed adesso era lì, proprio dove il suo grande amico Hunk gli aveva detto di non andare. Ma lui era fatto così: non poteva rimanere indifferente difronte a… “Tutto”, avrebbe detto sua sorella Veronica, ma la verità era semplicemente che non sapeva immaginarsi una vita senza una mamma d'abbracciare e fratelli e sorelle con cui litigare per poi fare pace subito dopo.
No, non sapeva davvero immaginarsela e quanto ci aveva provato si era sentito soffocare e tutto “grazie” a Griffin.

 

Kogane era un rompiscatole, senza ombra di dubbio, con quel suo fare da “mangiatevi la mia polvere, idioti”, ma... era solo.
Gli faceva pena?
Certo che sì, e per quanto Lance si dicesse che fosse una brutta cosa provare pena per un persona, non poteva evitarselo. Non in quel momento almeno.

 

Era davvero un tipo irritante, quel moro dagli occhi... (“Di che colore ha gli occhi Kogane? Non credo di averglieli mai guardati”, si trovò a riflettere) ma una cosa era certa: sapeva il fatto suo quando si trattava di pilotare un caccia. Sembrava quasi ce l'avesse nel sangue, neanche fosse nato con le ali.

Si era appena seduto su quella panca, il tempo di posare di lato la cassetta del pronto soccorso che, voltandosi, aveva trovato l'altro ragazzo a fissarlo con aria smarrita.

Sì, smarrita, Lance non trovava nessun altro modo per definirla, anche se solo per un secondo, poi d'improvviso lo vide corrugare la fronte e inarcare le sopracciglia tanto da farle assomigliare alle ali di un “corvo morto in volo” (non che gli fosse mai capitato di vederne uno, ma Lance era abbastanza sicuro che se, a uno di quei grossi uccellacci, fosse preso un colpo in cielo, le sue ali avrebbero avuto sicuramente quella forma) per poi vomitargli contro con tono rude: “Non so chi ti abbia mandato, ma te ne puoi anche andare”.
Lance si limitò ad abbassare lo sguardo e guardargli la mano, per poi voltarsi ad aprire la valigetta che aveva portato con sé. Ne estrasse poche cose che posò sulle sue gambe: disinfettante, una mucchietto di garze, un rotolo di fascia normale e un altro di quella rigida e adesiva.

Ehi, sei sordo? Ti ho detto di andartene. Vai da chi ti ha mandato e digli che si può ficcare quella valigetta in…

“Modera i termini, ho solo 13 anni, sai?” lo bloccò lui, e lo blocco davvero, trovando nei suoi occhi uno sguardo sorpreso.
“Comunque, per la norma, ci sento benissimo e dato che non mi ha mandato nessuno non ho nessuno da cui andare a dire proprio nulla, quindi rimango. Questione chiusa” e, così dicendo, allungò una mano per prendere quella di Keith.

Ti ho detto di andartene”, gli intimò ancora il texano.
“E io ti ho detto che ci sento, quindi smettila di ripeterti”, ribatté, riuscendo finalmente a prendere la mano dell’altro cadetto, procurandogli involontariamente una contrazione della mascella che non solo gli fece fremere i muscoli del viso, ma anche gli occhi gli si strinsero doloranti e... “Blu. No, non blu, viola... ecco sì, viola”. Gli occhi di Keith Kogane avevano una sfumatura viola adesso che riusciva a guardarli da vicino.

Maledizione, mollami o sarà peggio per te”, ringhiò con una sfumatura di dolore, ma non retrasse la mano, probabilmente più dolorante di quanto volesse dare ad intendere.

“E cosa vuoi farmi? Picchiarmi come hai fatto con Griffin?”

A quel dire Lance ottenne il sobbalzare dello sguardo del ragazzo difronte a lui.

“Se proprio ne hai voglia accomodati, ma ti avverto, urlo come una nonnetta isterica”.

“Una nonnet-cosa?” tentò di replicare sorpreso l’altro.
“Una nonnetta. Ne ho una e so di cosa parlo!” e… gli strappò un sorriso. Una cosa appena accennata, ma... “Wow, Allora anche Kogane sa sorridere!” lo sfotté senza reale malizia.

 

“No, non voglio picchiarti”, confessò Keith a bassa voce, sorvolando sulla battuta del tizio davanti a lui.

“Allora siamo a posto, perché io non voglio andarmene. Non prima di aver finito con te”, aggiunse ancora quel ragazzino dalla pelle scura, “quindi, se vuoi davvero che me ne vada ti conviene fare il buono e lasciarmi fare”.

Keith non obbiettò oltre e come poteva?

Quel moccioso l'aveva messo all'angolo e davvero non aveva voglia di picchiarlo, malgrado i suoi assurdi pensieri di poco prima.

Osservò quel ragazzo cominciare a pulirgli il taglio sulla mano e, accidenti se bruciava!

“Se ti faccio male, dimmelo.”

“Perché in caso cosa faresti?”

“Nulla in effetti”, rispose l'altro facendo spallucce, “ma a volte basta dire che cosa ci fa male per sentire meno dolore, sai?”

Keith non commentò, ma non era sicuro che avesse ragione, fatto stette però che dopo poco “Ahi!”, sottolineò atono.

“Ottimo. Funziona?”

“Per nulla.”

“Beh, almeno ci abbiamo provato.” Ancora fece spallucce e ancora a Keith venne da sorridere, ma questa volta fu bravo a tenerlo per sé.

L'osservò finire di pulire la ferita, metterci della garza e dare qualche giro di fascia, prima di chiudere il tutto con la benda rigida.

“Non sei stato furbo. Colpire James proprio nel momento in cui rientravano i professori...”, commentò il ragazzo dagli occhi blu, sbuffando appena, continuando a lavorare sulla sua mano a testa bassa e senza guardarlo in viso. “Cosa ti diceva la testa? Probabilmente nulla, dopo come sei stato trattato”.

Già, non aveva proprio pensato, su questo quel ragazzino non sbagliava.

Non gli rispose. Non gli andava, e in fondo quel tipo sembrava particolarmente afferrato a porre domande e a darsi risposte da solo.

Rimasero per diversi istanti in silenzio, fin quando: “Ho intenzione di andare dalla preside e raccontare come sono andati davvero i fatti”, disse quell’infermiere improvvisato.

“Perché lo stai facendo, che te ne viene?” chiese Keith mentre osservava la fascia rigida che il ragazzo gli aveva avvolto e stava avvolgendo attorno alle bende e attorno al polso.

 

“Qualcuno deve pure farlo”, rispose con un'alzata di spalle, Lance. “Un amico mi ha detto che sei un lupo solitario, ma io non la penso così. Forse sbaglio, ma ritengo che tutti quando ci sentiamo feriti cerchiamo di starcene un po' da soli. Pensiamo sia la cosa migliore da fare, ma in realtà non facciamo altro che crogiolarsi nel nostro dolore. Quando sei solo il dolore non passa, sai, anzi si fa più persistente e la tristezza aumenta, perché hai con te solo l'immagine deprimente di te stesso. Quando ero piccolo e mi arrabbiavo tanto da andarmi a chiudere nella mia stanza, la mamma mi correva dietro. Strillavo e sbraitavo perché non la volevo, ma la verità era che sapevo di poter sempre contare su di lei. Sempre. E la cosa mi faceva sentire bene, perché lei era lì, non importava quanto fossi arrabbiato: lei era lì, dietro la porta, per me. Così mi sono domandato se qualcuno a te fosse mai corso dietro.”

 

Quando il cadetto dai capelli castani alzò lo sguardo dalla fasciatura, trovò Keith a volto chino, probabilmente a controllare il suo lavoro.

Non fiatava e Lance temette di aver esagerato: malgrado il ragazzo avesse accettato il suo aiuto forse non apprezzava affatto che si trovasse lì con lui e quel suo brutto vizio di parlare troppo sicuramente non piaceva ad un tipo di poche parole come Kogane.

Oltretutto Lance si era messo a blaterare storie sulla sua Mamá, ma che gli era passato per la testa?

Sapeva che Keith era orfano, quindi perché, maledizione, non faceva altro che aprire bocca e dargli fiato senza ragionare minimamente sulle relative conseguenze?

Non si stava comportando meglio di Griffin. Certo, non era arrivato al suo livello, ma senz'altro ci era andato parecchio vicino.

“Finito”, informò.

Keith, a testa bassa, ritrasse la mano e, afferrando il polso dolente, se la portò al petto.

“Mi raccomando”, aggiunse, mentre riponeva le poche cose usate nella valigetta, cercando di spostare l'attenzione dalle sue prime parole dette aggiungendone di nuove.

Non che fosse la più geniale delle idee, ma... altre non gliene erano venute in mente, quindi: “Tutto sommato non è nulla di grave, mi sono conciato in maniera peggiore lottando con i miei fratelli. Ma cerca di non sforzare troppo il polso, dammi retta, so quello che dico” e… no, non lo sapeva. Di nuovo aveva tirato in ballo la sua famiglia.

Cielo, ma quanto poteva essere stupido?

L'unica cosa da fare a quel punto, per evitare altri danni, era andarsene e farlo quanto prima.

Si alzò e, valigetta alla mano, si diresse verso il corridoio.

“Beh, ci si vede al corso”, si limitò a dire dall'uscio, votandosi appena per guardare Keith: il moro non sembrava aver voglia né di parlare, né di degnarlo di uno sguardo.

Lance se ne sentì dispiaciuto.

Mosse un nuovo passo, oltrepassando la porta della palestra, quando...

“Che te ne viene?” gli giunse la voce di Keith, paralizzandolo suo posto. “Non mi hai ancora risposto. Che te ne viene, si può sapere?” gli inveì contro.

Dal tono sembrava arrabbiato, ma... “Niente”, rispose comunque Lance, prontamente, e per paura di dire anche una sola parola di troppo si sbrigò a chiudere la porta dietro di sé.

 

Keith, appena solo, guardò la mano bendata.

Il dolore al petto era sparito.

 

 

Keith gettò il grosso sacco dell'immondizia nella pattumiera del cortile della Garrison.

Si asciugò il sudore dalla fronte.

Faceva caldo, non che in quella struttura nel deserto facesse mai una temperatura diversa a quell'ora, ma, anche sapendo che presto, con l'arrivo della sera, avrebbe rinfrescato, lavorare per dover riparare a quel pugno dato non lo metteva di buon umore.

 

Rimase qualche secondo immobile a riprendere fiato.

Fortunatamente per quella giornata aveva quasi finito, ne mancavano solo altre quattro.

A quel pensiero un ghigno divertito gli piegò le labbra: a Griffin era andata decisamente peggio. Gli era toccato un intero mese di punizione e tutto perché quel ragazzino che l'aveva medicato e il suo grosso amico erano andati a raccontare alla preside come si erano svolte le cose.

Era stato James a provocarlo, tutti l'avevano visto, ma solo quei due avevano avuto il coraggio di dire come erano andati davvero i fatti.

Certo, lui non avrebbe dovuto reagire a quel modo, ma sapere che per una volta a quel “bravo ragazzo” di Griffin erano state rotte le uova nel paniere, non poteva che divertirlo e magari per un po' l'avrebbe lasciato stare.

 

Ancora il sudore tornò ad imperlargli la fronte e il ciuffo di capelli corvini che si appiccicava sulla pelle rendeva quella situazione ancora più fastidiosa.

Aveva bisogno di bere un goccio d'acqua. Accidenti se ne aveva bisogno!

 

Per sua fortuna il cortile adibito ai rifiuti era esattamente davanti ai campi per gli allenamenti e l'acqua delle fontanelle ai lati degli spalti era decisamente la più fresca di tutta la scuola.

 

Il tempo di voltarsi, fare un paio di passi nella direzione della pista per la corsa che, accanto agli attrezzi per la ginnastica, proprio sotto il set di sbarre, vide quel ragazzino dagli occhi blu.

Ma come accidenti si chiamava?

“Uff!” sbuffò, non gli era mai interessato conoscere i nomi o mischiarsi a quei “ragazzi di buona famiglia” che frequentavano una scuola tanto prestigiosa come la Garrison, quando lui era lì solo perché Takashi Shirogane aveva garantito per lui, convinto che avesse le carte in regola per starci e lui aveva voluto credergli.

Quel pensiero lo fece rabbuiare nuovamente: che diavolo aveva mai visto Shiro in lui e perché diamine adesso, di punto in bianco, gli interessava come si chiamava quel ragazzino?

Nel porsi quell'ultima domanda la mente guidò il suo sguardo verso il compagno di corso: gli dava le spalle, mentre a testa china sembrava massaggiarsi un braccio.

Non erano affari suoi, infondo.

Scosse il capo.

La fontanella non era troppo lontana, tornò a guardare davanti a sé e tirò dritto.

 

Era solo... che diamine ci faceva tutto solo il fine settimana in accademia?

Aveva una famiglia, glielo aveva detto quel giorno in palestra, oltretutto era anche senza quel ragazzone che se lo portava sempre dietro.

Strinse le labbra e represse l'istinto di tornare a guardarlo: era arrivato alla fontanella e lui era in quel campo solo ed esclusivamente per quello: bere.

 

Si piegò sullo spruzzo d’acqua. Era talmente piacevole che ne approfittò per chiudere gli occhi e muovere il volto in modo che lo zampillo lo colpisse.

L'acqua fresca gli scorse sulla pelle, dandogli nuova vitalità mentre si sollevava dal getto, lasciando che l’acqua gocciolasse piacevolmente dai capelli bagnati, lungo gli zigomi e il collo.

Oh, andava meglio! Andava decisamente meglio.

 

Keith si voltò per tornare sui suoi passi, ma per l'ennesima volta lo sguardo gli scivolò dove solo pochi istanti prima aveva visto l'altro cadetto e era ancora lì, anche se finalmente sembrava essersi deciso a fare qualcosa oltre che a rimanersene quasi del tutto imbambolato nel nulla.

Lo vide alzare un braccio verso la sbarra media, quella giusta per uno della sua statura. L'altro braccio seguì più lento il primo, ma prima che lo distendesse del tutto lo retrasse, piegandosi su se stesso e stringendosi il fianco.

Ma che diamine…?” Formulò la sua mente, mentre senza rendersene contò si era già mosso.

 

Silenziosamente si accostò al sostegno in metallo dell'asta e, a braccia conserte, vi si poggio contro con la schiena.

Gli occhi gli si assottigliavano, fissandosi sul volto del ragazzino: era accigliato, il volto era contratto in una smorfia di dolore, aveva un sopracciglio spaccato e un labbro tagliato e gonfio. Non sembrava essersi accorto di lui, completamente immerso i chissà quali pensieri.

Keith ci mise un solo attimo per capire cosa potesse essere successo.

“Che ci fai alla Garrison? Non hai una casa dove andartene durante le feste?” domandò con tono piatto, sorvolando volontariamente sullo stato dell'altro.

 

Lance sobbalzò, facendosi di lato e, a quel movimento improvviso, la spalla e le costole non mancarono di scatenargli una nuova fitta di dolore.

Strizzò istintivamente il lineamenti del viso, rimanendo solo con un occhio aperto a fissare il nuovo venuto.

Accidenti! Ma da dove cavolo spunti? Non sarai una sorta di ninja, spero?” si lamentò verso Kogane, praticamente generatosi dal caldo e dal nulla.

“Idiota”, fu il secco commento di risposta dell'altro.

“Gentile come al solito, vedo!” protestò.

“La smetti di dire scemate e mi spieghi che ci fai qui?”

Lance sfarfallò un paio di volte le ciglia stupito nella direzione dell'altro ragazzo, prima di alzare lo sguardo alla sbarra sulla sua testa e riportarlo nuovamente su di questi, indicando in contemporanea in alto con un dito, per dire con fare perplesso: “Aaa...ttrezzi?”

 

“Sei tu che devi dirlo a me. Razza di...” Keith blocco quel suo nuovo inveire notando sul volto del cadetto allargarsi un sorriso divertito. Ma... si stava prendendo gioco di lui? Davvero?

Non ebbe il tempo di rifletterci troppo sopra che lo vide portarsi una mano al labbro offeso.

“Ti hanno conciato per le feste”, osservò a quel punto.

“Già”, si limitò a rispondere l'altro, tornando a posizionarsi nuovamente sotto al centro esatto della sbarra.

Di nuovo Keith lo vide allungare le mani per tornare a stringersi a se stesso, preda dell’ennesima stilettata di dolore.

Non commentò, non ancora almeno, limitandosi ad inarcare un sopracciglio.

“Quindi? Sei rimasto per farti pestare o cosa?”

Lo vide tornare ad accennare un sorriso a quella domanda, questa volta attento a non far riaprire la ferita sul labbro. “Ovvio. Lo sanno tutti che adoro essere malmenato da tre cretini del terzo anno!”

La sfacciataggine del ragazzino gli portò un moto di ilarità che trattenne, camuffandolo da rassegnazione.

 

“Non ho denaro”, riprese poi, prima che Keith potesse dire qualunque cosa. “La mia famiglia non naviga nell'oro e non posso permettermi di tornare a casa alle feste”.

Questa poi!

Keith non se lo aspettava, allora non c'erano soltanto figli di papà in quella stramaledetta scuola!

Probabilmente quel gigante del suo amico era tornato a casa e gli amichetti di James avevano aspettato che fosse solo per pestarlo.

Una bella prova di coraggio”, pensò ironicamente, “in tre contro un ragazzino del primo anno, che schifo”.

Per l'ennesima volta lo vide tentare di afferrare la sbarra, si spinse un poco più su, ma ancora si retrasse dolorante.

“Certo che sei testardo?” protestò a quel punto, scostandosi dal palo dove appoggiava.

 

Lance non aveva ancora riaperto gli occhi dopo quella nuova fitta, quando sentì un paio di mani afferrarlo per i fianchi.

“Al mio tre, ok?”

Possibile? Davvero Keith Kogane lo stava aiutando?

Annuì, mentre il conto cominciava.

“Uno. Due e tre!” dichiarò il texano, sollevandolo di colpo.

Lance si afferrò all'asta, gettando il grosso del peso sul braccio buono. “Non lasciarmi, non ancora”, chiese di getto e l'altro sembrò accontentarlo.

Il tempo per il giovane cubano di prendere confidenza con la sua nuova condizione ed afferrare la sbarra in modo da potersi tirare su, che riprese: “Ok. A posto. Grazie”.

 

“Nulla”, rispose Keith, mentre l'osservava tirarsi seduto sulla traversa e lasciarsi andare nel vuoto fino ad arrivare a ciondolare a testa in giù con le gambe ben salde all'asta di metallo.

Keith ancora non capiva cosa avesse da fare ridotto in quello stato con quel attrezzo, ma la risposta non tardò ad arrivare: lo vide incrociare le mani dietro la nuca, incurante del dolore che lo costrinse a strizzare gli occhi ed a colorare le guance. Rimase così per una manciata di secondi.

Il tempo di abituarsi”, pensò Keith, ed era proprio così perché dopo poco lo vide riaprire gli occhi, prendere un profondo respiro e cominciare a fare una serie di flessioni. Dapprima lentamente, poi, presa confidenza con il dolore aumentò il ritmo.

“Non dovresti. Non stai bene”, lo rimproverò.

L’altro cadetto si voltò a guardarlo, ma non si fermò. “Naaa!” gli rispose, “Ho due fratelli più grossi di me, e ti assicuro che non è niente… senza contare che… una volta sono caduto… giù per una… scogliera e…” Il dire del ragazzo era spezzettato dal fiato reso corto dall'esercizio. “Quella volta sì che… ero ridotto male. Oltretutto… mi sono ripromesso… di farne almeno tre… serie da trenta… al giorno, tutti i… giorni e le farò… cascasse il mondo!”

Sì, era decisamente testardo a quanto sembrava.

“Voglio diventare… pilota, ma per farlo… non basta studiare… devo passare anche l'idoneità fisica e… sono ancora troppo debole.” Si fermò.

 

Keith non aveva contato, ma era abbastanza sicuro che quel ragazzino appeso a testa in giù avesse finito la sua prima serie.

“Secondo me ti fai troppi problemi”, commentò, ostentando non curanza.

“E tu troppo pochi”, ribatté immediatamente a tono l’altro.

Keith si sentì scioccamente irritato da quell’affermazione e non perché non fosse vero, anzi era l’esatto contrario ed era proprio quello ad innervosirlo.

Era lì, in quell’istituto, perché una parte di lui voleva dimostrare al resto del mondo (a quel Griffin e a tutti quelli che avevano detto che non avrebbe mai fatto nulla di buono nella vita, per primi) che era in grado di essere migliore, il migliore. Ma alla fine non aveva davvero fatto un granché: era rimasto lì, appeso, proprio come quel ragazzo accanto a lui, aspettando che qualcosa intervenisse a cambiare le cose, perché in verità era lui il primo a non credere in se stesso.

Shiro gli aveva teso una mano e lui… lui cosa ne stava facendo di quell’aiuto?

 

Il tempo di prendere fiato, contare fino a venti nella sua testa e Lance riprese con una nuova serie.

Keith lì accanto si era fatto silenzioso, nuovamente gettato contro il palo.

“Sai, infondo… non sembri così… male come dicono.”

“Beh, ti sbagli!” rispose rapido e a tono il texano.

“Certo… e allora perché… sei ancora qui?”

“Perché uno stupido ragazzino non saprebbe come scendere da quest’attrezzo ridotto com’è.”

Lance sorrise: Keith si era risposto da solo, anche se lui non era sicurissimo che ci avesse fatto caso.

“Idiota!” Mugugnò infastidito proprio quel Kogane dopo un attimo.

Oh, sì! Ci aveva appena fatto caso, eccome!

 

Lance finì di contare trenta flessioni. “Finalmente”, pensò. Il dolore era quasi insopportabile, ma non lo avrebbe fermato.

“Non sei costretto a farlo. Puoi andare. Mi farò cadere in terra e striscerò dolorante fino alla mia stanza.”

 

Keith ancora si trovò a dover trattenere una risata.

“Grazie”, aggiunse quel cadetto con tono gentile, riprendendo le sue flessioni.

“Non ringraziarmi.”

“Sì… invece. Comunque… ormai l’ho fatto… non posso mica… rimangiarmi le parole… dette, no?”

Quel ragazzino sorrideva, malgrado il labbro rotto, sembrava quasi non dispiacersi della sua compagnia e questo era… strano, doloroso in un qual modo.

Le persone di solito lo sfuggivano, non lo cercavano e certo non stavano a perdere tempo in chiacchiere con uno come lui.

Giusto Takashi, anzi Shiro, come preferiva farsi chiamare, sembrava sopportarlo, ma lui era diverso, speciale. Sciocco, per alcuni versi, a credere che, presto o tardi, non lo avrebbe deluso e qualche giorno prima ci era andato davvero molto vicino: come suo responsabile, Shiro si era preso una lavata di capo dalla direttrice a causa di quel pugno.

Non era la prima volta che Keith si azzuffava con altri cadetti, ma James era un ragazzo di buona famiglia e un ottimo studente; il fiore all’occhiello per alunni e insegnanti della sua vecchia scuola e anche lì, alla Garrison, la storia non era certo cambiata.

Era stato sicuro che, dopo quanto successo, Shiro lo avrebbe allontanato; che avrebbe gettato la spugna e preso le distanze, anche lui come gli altri, ma, contrariamente a quello che credeva, gli aveva detto che non avrebbe mollato, che sapeva quanto valeva.

Ma quanto valeva davvero?

Questo Keith non lo sapeva.

 

“Finito!” Le parole di quel ragazzino lo destarono dai suoi pensieri.

“Era ora”, commentò atono, scostandosi dal palo contro il quale poggiava.

Afferrò l’altro cadetto per la vita, mentre questi, appoggiandosi sulle sue spalle, tornava con i piedi in terra.

 

Era leggero. Keith Lo aveva già notato alzandolo la prima volta, ma in quell’istante quello stato di cose gli rese ancora più assurdo il pensiero che dei ragazzi più grandi avessero picchiato un ragazzino tanto piccolo.

 

“Bene. A questo punto tolgo il disturbo. Ci si incontra in giro, Kogane!” salutò Lance pronto da andare.

Attese qualche istante, un po’ per far sì che il sangue tornasse a scorrergli nella direzione giusta del corpo, dopo tutto quel tempo rimasto appeso in testa in giù, un po’ nella speranza che l’altro ricambiasse quel saluto, ma nulla: solo il sangue aveva fatto quanto si aspettava, Keith Kogane invece era rimasto fermo a guardare il terreno.

Era stanco per attendere oltre qualcosa che probabilmente non sarebbe arrivato e forse doveva semplicemente arrendersi all’evidenza: quel ragazzo era fatto così, non sapeva salutare, pazienza!

Si voltò per avviarsi.

“Perché lo hai fatto?” gli arrivò bassa la voce di Kogane frenandolo.

“Perché salutare è buona educazione, ecco perché?”

“Perché sei andato dalla preside?”

“Ah, quello!” Lance fece spallucce. “Perché sarebbe stato il tuo terzo richiamo e ti avrebbero sbattuto fuori dalla Garrison.”

E a te cosa importa!?” Keith alzò il volto di colpo, gettando in quello di Lance uno sguardo… ferito.

Era stato lui ad avergli fatto male? Come?

“Perché”, riprese, cercando di non far vedere quanto quegli occhi viola l’avessero colpito, “anche se non lo riesci a vedere, tu sei fatto per questo. Forse sono uno stupido, ma sei eccezionale: sembra che non te ne renda conto, ma riesci a fare istintivamente quello che molti di noi hanno bisogno di mesi di allenamento per compiere. Sei nato con le ali Keith, quelle di un caccia, ma pur sempre delle ali.”

“Guarda come ti hanno ridotto, pensi davvero che ne sia valsa la pena?” La voce del ragazzo aveva assunto una nota affranta.

“Le ferite guariscono, Keith”, rispose lui facendo per l’ennesima volta spallucce, “e sì, penso che tu ne valga la pena.”

 

Il sole stava tramontando, mentre Keith se ne stava ammutolito e confuso a guardare l’altro cadetto. Ma perché diamine gli dava tanto credito?

Non ebbe tempo di rispondersi che le labbra del ragazzino davanti a lui si piegarono in un ghigno presuntuoso, ignorando del tutto la ferita che tornava ad aprirsi.

“Anche se ti capisco”, disse a quel punto con sufficienza, “è normale. Sei intimidito dalla mia abilità. Sai che alle lunghe non hai speranza di vincere contro di me, ma tentare addirittura di farsi espellere per non affrontare la vergogna, beh, mi sembra un pochino eccessivo, anche da uno strano come te.”

Ma che diamine dici?” sbottò Keith incredulo, difronte a tanta faccia tosta.

“Solo la verità.”

“Quindi, non eri tu il pivello che piagnucolava davanti la bacheca, l’altro giorno, perché ultimo nelle graduatorie.” Non ricordare il nome di quel moccioso non voleva dire che Keith non lo avesse notato sbuffare deluso accanto a quel gigante del suo amico.

“Ops, mi hai visto? Beh, sappi che è tutta una tattica la mia”, disse puntandosi le mani sui fianchi e sollevando il mento con fare altezzoso. “Un bravo stratega non mette subito tutte le sue carte in gioco, lo sanno tutti!”

“Sì, certo”, commentò Keith con tono piatto.

“Mancano ancora due trimestri alla fine del corso. Preparati a mangiare la mia polvere, Kogane!” gridò in ultimo quel ragazzino, volgendosi e correndo via, ridendo divertito.

 

 

Era piuttosto tardi quando Shiro rientrò alla Garrison.

Aveva avuto una giornata pesante, ma tutto sommato non era stata tanto male.

Gli sarebbe piaciuto trovare Adam al suo ritorno, ma giustamente il compagno era tornato dai suoi per passare le feste, Keith era stato punito e lui non poteva certo lasciarlo da solo.  

 

La luce nella sala comune di quel settore era ancora accesa, qualche ragazzino se ne stava ancora raggomitolato sui divanetti a chiacchierare nel suo cellulare.

Non era la consuetudine, ma erano rimasti davvero in pochi nell’istituto durante le feste per permettersi di essere troppo fiscali.

 

Si diresse verso la camera di Keith. Era tardi, questo era vero, ma il cadetto in questione non era tipo da andare a dormire troppo presto e voleva sinceramente sapere come avesse passato la giornata.

Una sciocchezza infondo, ma qualcosa gli diceva che al ragazzino avrebbe fatto piacere e anche a lui, per non trovare due muniti per farlo, malgrado la stanchezza.

 

Come tutor aveva l’accesso alla stanza e la porta si aprì senza troppi problemi anche se rimase piacevolmente stupito di trovare Keith era alla sua scrivania, chinato sui libri.

 

Le iridi scure del ragazzino si erano voltate verso di lui non appena la porta si era aperta.

 

“Scusami se non ho bussato, temevo dormissi e non volevo disturbare”, informò l’ufficiale avvicinandosi.

Keith roteò la poltroncina girevole verso di lui, sorridendogli. “Tranquillo, studiavo.”

“Vedo. Cos’è questa novità? Mi devo preoccupare? Gira qualche strana influenza tropicale di cui non sono stato informato?” Lo prese in giro lui.

“Uff!” sbuffò Keith a quel fare. “Non sei affatto divertente, sai?”

“Lo so”, continuò Shiro divertito, appoggiandosi alla parete proprio accanto a al ragazzino e prendendo il libro degli esercizi dalla scrivania: diversi erano risolti. Shiro era meravigliato anche se evitò di darlo a vedere.

Keith solitamente faceva il minimo indispensabile mentre invece da quello che leggeva non aveva semplicemente risposto, ma aveva addirittura motivato le sue soluzioni.

“Passata una buona giornata?” decise di domandare, sorvolando dall’indagare su quella stranezza e posando il libro sul piano laccato.

 

“Ahhh!” Keith, tirò su le gambe incrociandole sulla seduta della poltroncina, e per tutta risposta sospirò facendogli alzare un sopracciglio. “È che c’è questo ragazzo del mio stesso corso. È un piccoletto fastidioso con gli blu che sta sempre appiccicato ad un tizio grosso il doppio di una persona normale. Hai presente? È convinto che diventerà il migliore del corso e…”

“McClain?” lo interruppe Shiro, capendo a chi si riferisse, non essendo poi molti i ragazzini selezionati per il corso d’inserimento per i piloti da combattimento. “Ho controllato i suoi risultati, ha dei buoni punteggi.”

“Si ok, ma potresti aspettare che finisca di parlare, Shiro?” Lo riprese piccato. A quanto pareva quel discorso doveva stargli particolarmente a cuore, il che era una bella novità, in effetti. “E vorrei farti notare che il migliore nel corso sono io, non certo questo… Mc-coso?”

“Ti ha sfidato?” chiese ancora, cominciando a intuire cosa potesse essere avvenuto.

“Tz! Sfidato, come se potesse competere con me. Ha solo aperto bocca e gli ha dato fiato. Tutto qui!” Disse stizzito, voltando la testa di lato.

“Capisco, quindi è un tuo amico?” azzardò.

“C…Cosa? Sei pazzo?” rispose di getto Keith, improvvisamente paonazzo, tornando a guardarlo. “Quello è fuori di testa: non ha il fisico per reggere la pressione in alta quota, eppure si ostina a fare quello che gli dice la testa!”

“Mi ricorda qualcuno, sai?” commentò divertito.

“Sì, un idiota”, sbuffò Keith senza riflettere e incrociando le braccia al petto.

“Quindi, in definitiva, hai passato una bella giornata, giusto?” tentò ancora, intimamente divertito da quella situazione e lieto che qualcosa fosse intervenuto finalmente a scuotere quel ragazzino, tanto da prendere in seria considerazione la possibilità che gli aveva offerto.

“Sono in rigore, come posso aver passato una bella giornata, Shiro!” replicò esasperato Keith.

 

 

Lance McClain, malgrado i suoi tentativi, non riuscì ad entrare nella classe dei combattenti.

Keith Kogane sì.

   

“Kogane era il migliore, ma con la notizia del fallimento della missione Kerberos ha dato di matto. È del tutto fuori dai giochi ormai.”

“Chi altro possiamo integrare al suo posto?”

“Griffin è senza alcun dubbio il più adatto. È il secondo del corso e…”

“Uhm…” mugugnò il Comandante Iverson, interrompendo la discussione sulle disposizioni delle nuove squadre.

“Signore?”

“McClain”, annunciò senza troppi giri di parole l’uomo.

“Cosa?” domandò più di una voce.

“Lance McClain del corso cargo”, aggiunse l’ufficiale.

“Un pilota cargo, non saprei”, commentò uno degli insegnanti presenti.

“Il migliore del corso cargo”, ribatté senza incertezze Iverson. “Ha partecipato alle selezioni per i combattenti. Ottimi punteggi, ma ancora troppo piccolo per il corso superiore.”

“Mi ricordo di lui”, commentò un altro dei presenti. “Si era dimostrato più versatile degli altri nel coprire più ambiti e questo gli ha giocato in parte contro. Eravamo certi avrebbe avuto più possibilità in altri settori.”

“Se siete d’accordo vorrei dargli una possibilità”, concluse il Comandante.

 

 

“E tu chi sei?” domandò Keith al tizio spuntato dal nulla che parlava di dover essere lui a salvare Shiro e che non aveva messo K.O. solo perché non indossava un’uniforme.

“Chi sono io? Ah… Il mio nome è Lance. Eravamo nella stessa classe alla Garrison”, rispose l’altro deluso come se lui dovesse davvero sapere chi fosse.

“Davvero? Sei un ingegnere?”

“No, sono un pilota!” il silenzio di Keith spinse Lance ad approfondire la cosa. “Eravamo, tipo, rivali. Hai presente, Lance e Keith, testa a testa.”

“Ah, aspetta, mi ricordo di te”, disse Keith accigliandosi. “Tu sei il pilota cargo.”

“Non più ora. Sono nella classe Combattenti, grazie a te che sei stato espulso”, il tono del cubano arrivò irritato.

“Bene, congratulazioni”, concluse l’altro senza alcuna enfasi.

 

Keith ne era rimasto sorpreso, aveva appena ritrovato Shiro e… Quello era Lance McClain?

Davvero quel ragazzo che lo superava di mezza spanna era quel piccoletto rompiscatole?

Aveva detto cose a caso, non se lo aspettava e la tensione del momento certo non aiutata, ma come poteva non ricordare quel ragazzino?

Senza neanche saperlo lo aveva costretto a darsi una smossa, gli aveva sbattuto in faccia che se voleva dimostrare davvero chi fosse non doveva semplicemente aspettare che le cose cambiassero, avrebbe dovuto fare lui in modo che questo avvenisse.

Doveva dire che era cresciuto parecchio dall’ultima volta che lo aveva visto, una cosa però non sembrava cambiata: chiacchierava ancora decisamente troppo, per i suoi gusti.

 

“Ok, era un insulto. Ci sono arrivato!”

Keith sorrise, anche l’ironia del ragazzo era ancora tutta lì.

Non sapeva dove lo avrebbe portato quell’avventura nel deserto, ma aveva ritrovato Shiro e con McClain al seguito prometteva di rivelarsi divertente.   

 

 

Keith, contro le sue stesse aspettative, non rimase meravigliato, quando il Leone Blu che lo aveva chiamato per mesi scelse Lance.

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Titolo: Minacciato dall’oroscopo

Cow-t 9, settima settimana, M12.

Prompt: “Gemelli”
Numero parole: 303
Rating: Verde
Fandom: Harry Potter

Introduzione: Harry si rende conto di aver scambiato i suoi libri con quelli di qualcun altro, ma con chi? Non fa in tempo a capirlo che qualcosa accade.
Genere: Comico, Scolastico, Fantasy
Personaggi: Harry, Draco
Avvertimenti: Nessuno

 

--- --- ---

  

Quella mattina era iniziata proprio male, per Harry. Dal risveglio improvviso per la sirena delle esercitazioni anti-qualcosa che ancora gli rimbombava nelle orecchie, all’Avifors che aveva letteralmente fatto prendere il volo al pranzo della mensa.

Non aveva neanche voglia di sospirare, né tanto meno di aprire il libro di testo alla pagina…

“Cielo!” si disse, non trovando tra le sue cose il libro richiesto.

Come faceva a trovare la pagina da consultare se non aveva nemmeno il libro con sé?

 

Alla fine quel sospiro lo fece.

 

Ad un controllo più approfondito notò che quelli non erano nemmeno i suoi libri.

La cosa da fare a quel punto era capire in che esatto momento avesse scambiato quello che era suo con quello che chiaramente non gli apparteneva.

Stava cercando di rimettere insieme tutti i pezzi, quando lo sguardo gli cadde su qualcosa d’insolito: nascosta tra i libri c’era una rivista aperta proprio sulla pagina degli oroscopi.

 

Distrattamente lo sguardo gli scorse fino al suo segno.

“Leone: qualcosa ti sfuggirà di mano.”

 

Non fece in tempo a finire di leggere il resto che Malfoy, spuntato praticamente dal nulla, gli strappò il giornale di mano dicendo: “Cosa abbiamo qui? Le solite sciocchezze di Potter?”

 

“Lascia, non è…” Harry nemmeno ci provò a contestare oltre, vedendo lo sguardo di Draco sgranarsi stupito, prima che il ragazzo diventasse paonazzo in viso e gli riconsegnasse la rivista.

 

Harry rimase qualche secondo stupito con il giornale tra le mani, osservando l’altro ragazzo allontanarsi con passo deciso e prendere la porta.

Con sguardo perplesso tornò a consultare la rivista, trovandosi a leggere, prima ancora di rendersene veramente conto, l’unica dicitura zodiacale cerchiata in rosso.

“Gemelli: se non ridarai il giornale a Leone tutti sapranno cosa hai fatto con Pesci.”

 

Un ciondolo a forma di corvo penzolava placidamente a lato della tracolla.

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