Titolo: Il Bullo
Cow-t 9, settima settimana, M11.
Prompt: “L’appeso”
Numero parole: 6621
Rating: Verde
Fandom: Voltron: Legendary Defender
Introduzione: Keith aveva agito d’istinto, non avrebbe creduto che un pugno potesse cambiare tanto il suo modo di vedere le cose.
Note: La carta dell’Appeso viene rappresentata come una persona sospesa per una sola gamba. Ha le mani libere e non è tanto lontana da terra. Potrebbe liberarsi, ma non lo fa. Preferisci rimanere così, in stasi, quasi fosse in attesa di qualcosa. In questa storia ci sono due ragazzi appesi: Lance, fisicamente, deciso a voler essere il fautore del suo destino e Keith, interiormente, incerto su cosa stia realmente facendo alla Garrison e se quello sia davvero il suo posto.
Genere: Introspettivo, Scolastico
Personaggi: Hunk, Iverson, Keith, Lance, Shiro
Avvertimenti: Missing Moments
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Erano rimasti tutti sbigottiti dopo che Keith, senza preavviso alcuno, aveva colpito James in pieno volto. Certo non era un comportamento accettabile da un cadetto dell'esercito, benché meno dell'accademia aereospaziale, ma c'era da dire che James Griffin aveva parlato troppo e questa era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Keith ne aveva mandati giù di bocconi amari durante quel periodo, ma quello... quello era stato davvero troppo: James aveva ricordato, per l'ennesima volta all'altro ragazzo, che non aveva una famiglia, che non aveva più dei genitori.
Tutti quelli che conoscevano lo, almeno di vista o ne avevano sentito parlare alla Garrison, sapevano o sospettavano che Keith fosse orfano, ma da qui a sbandierarlo proprio davanti ai ragazzi del corso che frequentava era stata ben altra cosa.
Keith non aveva resistito e il risultato finale era stato proprio quello: un pugno ben assestato e con tutta la forza che aveva in corpo contro il muso del compagno spocchioso.
Non passarono che pochi secondi e, prima che qualcuno potesse dire anche una sola parola, Keith scappò via, incurante degli allievi e dei professori che aveva intorno.

Sbigottiti. Erano rimasti tutti scioccati per quanto avvenuto, compreso lo stesso James. Tutti, ma c'era stato qualcuno che era sconvolto già prima di quel pugno e questo era stato Hunk.
Hunk era un ragazzone moro e dalla pelle scura, che frequentava lo stesso corso dei due litiganti e aveva sentito i brividi scorrergli lungo la schiena nell'udire le parole che James aveva rivolto a Keith Kogane.
Keith aveva sicuramente un brutto carattere, tutti lo sapevano e il suo comportamento durante la simulazione di volo era stato indubbiamente deprecabile, ma da questo al gettargli contro parole tanto cattive e dolorose c'era un vero e proprio abisso.
Ad Hunk era stato immediatamente chiaro che James Griffin voleva colpire per ferire e c'era riuscito.
Il colpo era andato a segno e aveva fatto male, terribilmente male e, come anche troppo spesso accade, la cosa si era rivoltata contro lo stesso James e quello disteso sul pavimento con il naso sanguinante alla fine era stato proprio lui.
Il peggio però per Hunk doveva ancora arrivare.
Lui e il suo compagno di stanza, Lance McClain, un ragazzino mingherlino dai cortissimi capelli castani, la pelle scura e gli occhi blu, se ne stavano passeggiando per i corridoi qualche minuto dopo il fattaccio.
Non parlavano, il ché era strano per Hunk dato che succedeva difficilmente, e assai di rado, che l'amico concedesse al mondo più di qualche attimo di silenzio quando si era in sua compagnia.
Lance se ne stava accanto a lui, manteneva il suo stesso passo, eppure aveva sul volto un’espressione pensierosa, mentre incedeva con le mani intrecciate dietro la nuca e lo sguardo rivolto al soffitto.
“Non lo so”, esordì all'improvviso, voltandosi verso di Hunk con tono meditabondo. “Forse dovremmo andare dalla preside”.
Come era prevedibile anche Lance, proprio come lui, non aveva gradito lo spettacolo a cui avevano assistito.
“Naaa”, commentò, trascinando la vocale neanche fosse il miagolio di un gatto. “Sono sicuro che ci hanno già pensato i professori. Quel pugno ha lasciato parecchi senza parole, anche lo stesso James”. Il tono di Hunk uscì anche troppo ironico sul finale. Non voleva essere cattivo, ma James per lui se l'era meritato e non era nella sua indole tenere per sé i suoi sentimenti.
“Uhm...”, mugugnò Lance a quelle parole, ancora pensieroso. “Non parlo del pugno. Parlo di quello che Griffin ha detto a Kogane.”
“E che differenza c'è, scusa?”
Lance stava per rispondere. Hunk aveva visto le parole cominciare a formarsi sulle labbra sottili, ma contrariamente a quanto il ragazzone dagli occhi scuri si aspettava, l'amico rimase semplicemente con la bocca socchiusa e lo sguardo inchiodato su qualcosa oltre le sue spalle.
I piedi di Lance si erano bloccati e quindi anche Hunk frenò il passo, per poi volgersi verso il punto dove il ragazzino guardava: la palestra.
La porta era aperta e, al di là degli spalti, sulle panche riservate alle squadre di pallacanestro, seduto a testa china a tenersi con una mano il polso, c'era proprio quel Keith Kogane di cui stavano parlando.
Si voltò nuovamente verso di Lance e fu un secondo: vide l'espressione del ragazzo farsi seria, sciogliere le mani da dietro la nuca, lasciarle cadere lungo i fianchi e stringere i pugni pronto a fare qualcosa.
Hunk lo sapeva, conosceva anche troppo bene il suo amico per non riuscire ad interpretare al primo cambiamento della postura cosa stesse per combinare.
Lo vide muoversi deciso verso la palestra e fu rapido a mettergli una mano sulla spalla per fermarlo.
“Ehi, ehi, ehi...”, disse, ritirandolo indietro e spostando entrambi dallo spettro della porta, facendosi forte della sua sorprendente stazza fisica. “Cosa pensi di fare? Vuoi farti ammazzare? Kogane ha già la luna girata, davvero vuoi rischiare che ti pesti come ha fatto con James? Poi diciamocelo, amico mio, tu sei tutto tranne che diplomatico”.
Il fiume di parole in piena che era cominciato a sgorgare dalle labbra di Hunk venne bloccato solo per un secondo dal “Ma...” di Lance, ripreso immediatamente da: “Non c'è ma che tenga.”
“La sua mano, Hunk!”
“Guarirà. Lascialo in pace. È un lupo solitario, lo sanno tutti, se ne starà un po' da solo e poi tornerà lo scontroso di sempre.”
A quelle parole Lance parve riflettere e ritornare sui suoi passi.
Hunk sapeva esattamente che si trattava solo di apparenza, dato che i pugni dell’amico erano ancora ben serrati. Fatto stava però che aveva ripreso a camminare; a camminare nella direzione sbagliata, ma almeno non era entrato in palestra e questo per Hunk era già un successo.

Keith se ne stava seduto su una delle panche al lato del campo da basket.
Nessuno frequentava quella palestra dopo le lezioni ed era un ottimo posto dove potersene stare da soli e in santa pace, quando occorreva.
Stringeva il polso della mano dolorante: era gonfio, bollente e pulsava come se fosse rotto, ma non lo era. Non era certo un medico, ma riusciva a muoverlo e questo doveva essere un buon segnale sul suo stato.
Provò per l'ennesima volta a ruotarlo: la fitta che gli saettò al cervello sembrava sopportabile.
Aprì e chiuse la mano e una sensazione non dissimile dalla precedente cavalcò i recettori del dolore fino a costringerlo a digrignare i denti sofferente.
Sul dorso della mano, le nocche erano percorse da un taglio superficiale che aveva smesso di sanguinare da un po’, ma che non aveva un bell'aspetto: anche questo aveva i bordi arrossati che stavano sfumando al viola e il ragazzo sentiva la pelle tirare fastidiosamente.
“Mi verrà un bel livido”, pensò. “Nota per me stesso: in una scazzottata non mirare mai più alla bocca”. L'ironia amara che aveva per un attimo allontanato il dolore dai suoi pensieri non affievolì però il peso che le parole dette da James gli avevano lasciato sul cuore.
Keith ci era andato pensate: non gli era mai capitato di colpire qualcuno con così tanta forza e desiderio di farlo, eppure non se ne sentiva pentito, solo... triste, amareggiato.
Amareggiato sì, perché non avrebbe dovuto permettere a qualcuno di arrivargli talmente vicino da ferirlo, nessuno avrebbe dovuto fargli così male: nessuno aveva il diritto di parlare così dei suoi genitori, di… suo padre.
Nessuno. A costo di trovarsi a dover prendere a pugni l'intero istituto.
L'assurdità vera era però che, per quanto fosse brutta la ferita e per quanto gli dolessero i muscoli, a fargli davvero male era il petto, come se qualche cosa premesse contro la bocca dello stomaco al punto da rendergli faticoso respirare.
Qualcosa però lo scosse d'improvviso, anzi qualcuno.
Uno dei ragazzini del suo corso era praticamente apparso dal nulla e, di peso, gli si era seduto accanto con una valigetta del pronto soccorso tra le mani.
La mente doveva essere davvero troppo annebbiata dal dolore e dai pensieri per non rendersi conto di quel nuovo evento e... diamine, non era da lui!

Lance non aveva voluto sentire ragioni ed adesso era lì, proprio dove il suo grande amico Hunk gli aveva detto di non andare. Ma lui era fatto così: non poteva rimanere indifferente difronte a… “Tutto”, avrebbe detto sua sorella Veronica, ma la verità era semplicemente che non sapeva immaginarsi una vita senza una mamma d'abbracciare e fratelli e sorelle con cui litigare per poi fare pace subito dopo.
No, non sapeva davvero immaginarsela e quanto ci aveva provato si era sentito soffocare e tutto “grazie” a Griffin.
Kogane era un rompiscatole, senza ombra di dubbio, con quel suo fare da “mangiatevi la mia polvere, idioti”, ma... era solo.
Gli faceva pena?
Certo che sì, e per quanto Lance si dicesse che fosse una brutta cosa provare pena per un persona, non poteva evitarselo. Non in quel momento almeno.
Era davvero un tipo irritante, quel moro dagli occhi... (“Di che colore ha gli occhi Kogane? Non credo di averglieli mai guardati”, si trovò a riflettere) ma una cosa era certa: sapeva il fatto suo quando si trattava di pilotare un caccia. Sembrava quasi ce l'avesse nel sangue, neanche fosse nato con le ali.
Si era appena seduto su quella panca, il tempo di posare di lato la cassetta del pronto soccorso che, voltandosi, aveva trovato l'altro ragazzo a fissarlo con aria smarrita.
Sì, smarrita, Lance non trovava nessun altro modo per definirla, anche se solo per un secondo, poi d'improvviso lo vide corrugare la fronte e inarcare le sopracciglia tanto da farle assomigliare alle ali di un “corvo morto in volo” (non che gli fosse mai capitato di vederne uno, ma Lance era abbastanza sicuro che se, a uno di quei grossi uccellacci, fosse preso un colpo in cielo, le sue ali avrebbero avuto sicuramente quella forma) per poi vomitargli contro con tono rude: “Non so chi ti abbia mandato, ma te ne puoi anche andare”.
Lance si limitò ad abbassare lo sguardo e guardargli la mano, per poi voltarsi ad aprire la valigetta che aveva portato con sé. Ne estrasse poche cose che posò sulle sue gambe: disinfettante, una mucchietto di garze, un rotolo di fascia normale e un altro di quella rigida e adesiva.
“Ehi, sei sordo? Ti ho detto di andartene. Vai da chi ti ha mandato e digli che si può ficcare quella valigetta in…”
“Modera i termini, ho solo 13 anni, sai?” lo bloccò lui, e lo blocco davvero, trovando nei suoi occhi uno sguardo sorpreso.
“Comunque, per la norma, ci sento benissimo e dato che non mi ha mandato nessuno non ho nessuno da cui andare a dire proprio nulla, quindi rimango. Questione chiusa” e, così dicendo, allungò una mano per prendere quella di Keith.
“Ti ho detto di andartene”, gli intimò ancora il texano.
“E io ti ho detto che ci sento, quindi smettila di ripeterti”, ribatté, riuscendo finalmente a prendere la mano dell’altro cadetto, procurandogli involontariamente una contrazione della mascella che non solo gli fece fremere i muscoli del viso, ma anche gli occhi gli si strinsero doloranti e... “Blu. No, non blu, viola... ecco sì, viola”. Gli occhi di Keith Kogane avevano una sfumatura viola adesso che riusciva a guardarli da vicino.
“Maledizione, mollami o sarà peggio per te”, ringhiò con una sfumatura di dolore, ma non retrasse la mano, probabilmente più dolorante di quanto volesse dare ad intendere.
“E cosa vuoi farmi? Picchiarmi come hai fatto con Griffin?”
A quel dire Lance ottenne il sobbalzare dello sguardo del ragazzo difronte a lui.
“Se proprio ne hai voglia accomodati, ma ti avverto, urlo come una nonnetta isterica”.
“Una nonnet-cosa?” tentò di replicare sorpreso l’altro.
“Una nonnetta. Ne ho una e so di cosa parlo!” e… gli strappò un sorriso. Una cosa appena accennata, ma... “Wow, Allora anche Kogane sa sorridere!” lo sfotté senza reale malizia.
“No, non voglio picchiarti”, confessò Keith a bassa voce, sorvolando sulla battuta del tizio davanti a lui.
“Allora siamo a posto, perché io non voglio andarmene. Non prima di aver finito con te”, aggiunse ancora quel ragazzino dalla pelle scura, “quindi, se vuoi davvero che me ne vada ti conviene fare il buono e lasciarmi fare”.
Keith non obbiettò oltre e come poteva?
Quel moccioso l'aveva messo all'angolo e davvero non aveva voglia di picchiarlo, malgrado i suoi assurdi pensieri di poco prima.
Osservò quel ragazzo cominciare a pulirgli il taglio sulla mano e, accidenti se bruciava!
“Se ti faccio male, dimmelo.”
“Perché in caso cosa faresti?”
“Nulla in effetti”, rispose l'altro facendo spallucce, “ma a volte basta dire che cosa ci fa male per sentire meno dolore, sai?”
Keith non commentò, ma non era sicuro che avesse ragione, fatto stette però che dopo poco “Ahi!”, sottolineò atono.
“Ottimo. Funziona?”
“Per nulla.”
“Beh, almeno ci abbiamo provato.” Ancora fece spallucce e ancora a Keith venne da sorridere, ma questa volta fu bravo a tenerlo per sé.
L'osservò finire di pulire la ferita, metterci della garza e dare qualche giro di fascia, prima di chiudere il tutto con la benda rigida.
“Non sei stato furbo. Colpire James proprio nel momento in cui rientravano i professori...”, commentò il ragazzo dagli occhi blu, sbuffando appena, continuando a lavorare sulla sua mano a testa bassa e senza guardarlo in viso. “Cosa ti diceva la testa? Probabilmente nulla, dopo come sei stato trattato”.
Già, non aveva proprio pensato, su questo quel ragazzino non sbagliava.
Non gli rispose. Non gli andava, e in fondo quel tipo sembrava particolarmente afferrato a porre domande e a darsi risposte da solo.
Rimasero per diversi istanti in silenzio, fin quando: “Ho intenzione di andare dalla preside e raccontare come sono andati davvero i fatti”, disse quell’infermiere improvvisato.
“Perché lo stai facendo, che te ne viene?” chiese Keith mentre osservava la fascia rigida che il ragazzo gli aveva avvolto e stava avvolgendo attorno alle bende e attorno al polso.
“Qualcuno deve pure farlo”, rispose con un'alzata di spalle, Lance. “Un amico mi ha detto che sei un lupo solitario, ma io non la penso così. Forse sbaglio, ma ritengo che tutti quando ci sentiamo feriti cerchiamo di starcene un po' da soli. Pensiamo sia la cosa migliore da fare, ma in realtà non facciamo altro che crogiolarsi nel nostro dolore. Quando sei solo il dolore non passa, sai, anzi si fa più persistente e la tristezza aumenta, perché hai con te solo l'immagine deprimente di te stesso. Quando ero piccolo e mi arrabbiavo tanto da andarmi a chiudere nella mia stanza, la mamma mi correva dietro. Strillavo e sbraitavo perché non la volevo, ma la verità era che sapevo di poter sempre contare su di lei. Sempre. E la cosa mi faceva sentire bene, perché lei era lì, non importava quanto fossi arrabbiato: lei era lì, dietro la porta, per me. Così mi sono domandato se qualcuno a te fosse mai corso dietro.”
Quando il cadetto dai capelli castani alzò lo sguardo dalla fasciatura, trovò Keith a volto chino, probabilmente a controllare il suo lavoro.
Non fiatava e Lance temette di aver esagerato: malgrado il ragazzo avesse accettato il suo aiuto forse non apprezzava affatto che si trovasse lì con lui e quel suo brutto vizio di parlare troppo sicuramente non piaceva ad un tipo di poche parole come Kogane.
Oltretutto Lance si era messo a blaterare storie sulla sua Mamá, ma che gli era passato per la testa?
Sapeva che Keith era orfano, quindi perché, maledizione, non faceva altro che aprire bocca e dargli fiato senza ragionare minimamente sulle relative conseguenze?
Non si stava comportando meglio di Griffin. Certo, non era arrivato al suo livello, ma senz'altro ci era andato parecchio vicino.
“Finito”, informò.
Keith, a testa bassa, ritrasse la mano e, afferrando il polso dolente, se la portò al petto.
“Mi raccomando”, aggiunse, mentre riponeva le poche cose usate nella valigetta, cercando di spostare l'attenzione dalle sue prime parole dette aggiungendone di nuove.
Non che fosse la più geniale delle idee, ma... altre non gliene erano venute in mente, quindi: “Tutto sommato non è nulla di grave, mi sono conciato in maniera peggiore lottando con i miei fratelli. Ma cerca di non sforzare troppo il polso, dammi retta, so quello che dico” e… no, non lo sapeva. Di nuovo aveva tirato in ballo la sua famiglia.
Cielo, ma quanto poteva essere stupido?
L'unica cosa da fare a quel punto, per evitare altri danni, era andarsene e farlo quanto prima.
Si alzò e, valigetta alla mano, si diresse verso il corridoio.
“Beh, ci si vede al corso”, si limitò a dire dall'uscio, votandosi appena per guardare Keith: il moro non sembrava aver voglia né di parlare, né di degnarlo di uno sguardo.
Lance se ne sentì dispiaciuto.
Mosse un nuovo passo, oltrepassando la porta della palestra, quando...
“Che te ne viene?” gli giunse la voce di Keith, paralizzandolo suo posto. “Non mi hai ancora risposto. Che te ne viene, si può sapere?” gli inveì contro.
Dal tono sembrava arrabbiato, ma... “Niente”, rispose comunque Lance, prontamente, e per paura di dire anche una sola parola di troppo si sbrigò a chiudere la porta dietro di sé.
Keith, appena solo, guardò la mano bendata.
Il dolore al petto era sparito.

Keith gettò il grosso sacco dell'immondizia nella pattumiera del cortile della Garrison.
Si asciugò il sudore dalla fronte.
Faceva caldo, non che in quella struttura nel deserto facesse mai una temperatura diversa a quell'ora, ma, anche sapendo che presto, con l'arrivo della sera, avrebbe rinfrescato, lavorare per dover riparare a quel pugno dato non lo metteva di buon umore.
Rimase qualche secondo immobile a riprendere fiato.
Fortunatamente per quella giornata aveva quasi finito, ne mancavano solo altre quattro.
A quel pensiero un ghigno divertito gli piegò le labbra: a Griffin era andata decisamente peggio. Gli era toccato un intero mese di punizione e tutto perché quel ragazzino che l'aveva medicato e il suo grosso amico erano andati a raccontare alla preside come si erano svolte le cose.
Era stato James a provocarlo, tutti l'avevano visto, ma solo quei due avevano avuto il coraggio di dire come erano andati davvero i fatti.
Certo, lui non avrebbe dovuto reagire a quel modo, ma sapere che per una volta a quel “bravo ragazzo” di Griffin erano state rotte le uova nel paniere, non poteva che divertirlo e magari per un po' l'avrebbe lasciato stare.
Ancora il sudore tornò ad imperlargli la fronte e il ciuffo di capelli corvini che si appiccicava sulla pelle rendeva quella situazione ancora più fastidiosa.
Aveva bisogno di bere un goccio d'acqua. Accidenti se ne aveva bisogno!
Per sua fortuna il cortile adibito ai rifiuti era esattamente davanti ai campi per gli allenamenti e l'acqua delle fontanelle ai lati degli spalti era decisamente la più fresca di tutta la scuola.
Il tempo di voltarsi, fare un paio di passi nella direzione della pista per la corsa che, accanto agli attrezzi per la ginnastica, proprio sotto il set di sbarre, vide quel ragazzino dagli occhi blu.
Ma come accidenti si chiamava?
“Uff!” sbuffò, non gli era mai interessato conoscere i nomi o mischiarsi a quei “ragazzi di buona famiglia” che frequentavano una scuola tanto prestigiosa come la Garrison, quando lui era lì solo perché Takashi Shirogane aveva garantito per lui, convinto che avesse le carte in regola per starci e lui aveva voluto credergli.
Quel pensiero lo fece rabbuiare nuovamente: che diavolo aveva mai visto Shiro in lui e perché diamine adesso, di punto in bianco, gli interessava come si chiamava quel ragazzino?
Nel porsi quell'ultima domanda la mente guidò il suo sguardo verso il compagno di corso: gli dava le spalle, mentre a testa china sembrava massaggiarsi un braccio.
Non erano affari suoi, infondo.
Scosse il capo.
La fontanella non era troppo lontana, tornò a guardare davanti a sé e tirò dritto.
Era solo... che diamine ci faceva tutto solo il fine settimana in accademia?
Aveva una famiglia, glielo aveva detto quel giorno in palestra, oltretutto era anche senza quel ragazzone che se lo portava sempre dietro.
Strinse le labbra e represse l'istinto di tornare a guardarlo: era arrivato alla fontanella e lui era in quel campo solo ed esclusivamente per quello: bere.
Si piegò sullo spruzzo d’acqua. Era talmente piacevole che ne approfittò per chiudere gli occhi e muovere il volto in modo che lo zampillo lo colpisse.
L'acqua fresca gli scorse sulla pelle, dandogli nuova vitalità mentre si sollevava dal getto, lasciando che l’acqua gocciolasse piacevolmente dai capelli bagnati, lungo gli zigomi e il collo.
Oh, andava meglio! Andava decisamente meglio.
Keith si voltò per tornare sui suoi passi, ma per l'ennesima volta lo sguardo gli scivolò dove solo pochi istanti prima aveva visto l'altro cadetto e era ancora lì, anche se finalmente sembrava essersi deciso a fare qualcosa oltre che a rimanersene quasi del tutto imbambolato nel nulla.
Lo vide alzare un braccio verso la sbarra media, quella giusta per uno della sua statura. L'altro braccio seguì più lento il primo, ma prima che lo distendesse del tutto lo retrasse, piegandosi su se stesso e stringendosi il fianco.
“Ma che diamine…?” Formulò la sua mente, mentre senza rendersene contò si era già mosso.
Silenziosamente si accostò al sostegno in metallo dell'asta e, a braccia conserte, vi si poggio contro con la schiena.
Gli occhi gli si assottigliavano, fissandosi sul volto del ragazzino: era accigliato, il volto era contratto in una smorfia di dolore, aveva un sopracciglio spaccato e un labbro tagliato e gonfio. Non sembrava essersi accorto di lui, completamente immerso i chissà quali pensieri.
Keith ci mise un solo attimo per capire cosa potesse essere successo.
“Che ci fai alla Garrison? Non hai una casa dove andartene durante le feste?” domandò con tono piatto, sorvolando volontariamente sullo stato dell'altro.
Lance sobbalzò, facendosi di lato e, a quel movimento improvviso, la spalla e le costole non mancarono di scatenargli una nuova fitta di dolore.
Strizzò istintivamente il lineamenti del viso, rimanendo solo con un occhio aperto a fissare il nuovo venuto.
“Accidenti! Ma da dove cavolo spunti? Non sarai una sorta di ninja, spero?” si lamentò verso Kogane, praticamente generatosi dal caldo e dal nulla.
“Idiota”, fu il secco commento di risposta dell'altro.
“Gentile come al solito, vedo!” protestò.
“La smetti di dire scemate e mi spieghi che ci fai qui?”
Lance sfarfallò un paio di volte le ciglia stupito nella direzione dell'altro ragazzo, prima di alzare lo sguardo alla sbarra sulla sua testa e riportarlo nuovamente su di questi, indicando in contemporanea in alto con un dito, per dire con fare perplesso: “Aaa...ttrezzi?”
“Sei tu che devi dirlo a me. Razza di...” Keith blocco quel suo nuovo inveire notando sul volto del cadetto allargarsi un sorriso divertito. Ma... si stava prendendo gioco di lui? Davvero?
Non ebbe il tempo di rifletterci troppo sopra che lo vide portarsi una mano al labbro offeso.
“Ti hanno conciato per le feste”, osservò a quel punto.
“Già”, si limitò a rispondere l'altro, tornando a posizionarsi nuovamente sotto al centro esatto della sbarra.
Di nuovo Keith lo vide allungare le mani per tornare a stringersi a se stesso, preda dell’ennesima stilettata di dolore.
Non commentò, non ancora almeno, limitandosi ad inarcare un sopracciglio.
“Quindi? Sei rimasto per farti pestare o cosa?”
Lo vide tornare ad accennare un sorriso a quella domanda, questa volta attento a non far riaprire la ferita sul labbro. “Ovvio. Lo sanno tutti che adoro essere malmenato da tre cretini del terzo anno!”
La sfacciataggine del ragazzino gli portò un moto di ilarità che trattenne, camuffandolo da rassegnazione.
“Non ho denaro”, riprese poi, prima che Keith potesse dire qualunque cosa. “La mia famiglia non naviga nell'oro e non posso permettermi di tornare a casa alle feste”.
Questa poi!
Keith non se lo aspettava, allora non c'erano soltanto figli di papà in quella stramaledetta scuola!
Probabilmente quel gigante del suo amico era tornato a casa e gli amichetti di James avevano aspettato che fosse solo per pestarlo.
“Una bella prova di coraggio”, pensò ironicamente, “in tre contro un ragazzino del primo anno, che schifo”.
Per l'ennesima volta lo vide tentare di afferrare la sbarra, si spinse un poco più su, ma ancora si retrasse dolorante.
“Certo che sei testardo?” protestò a quel punto, scostandosi dal palo dove appoggiava.
Lance non aveva ancora riaperto gli occhi dopo quella nuova fitta, quando sentì un paio di mani afferrarlo per i fianchi.
“Al mio tre, ok?”
Possibile? Davvero Keith Kogane lo stava aiutando?
Annuì, mentre il conto cominciava.
“Uno. Due e tre!” dichiarò il texano, sollevandolo di colpo.
Lance si afferrò all'asta, gettando il grosso del peso sul braccio buono. “Non lasciarmi, non ancora”, chiese di getto e l'altro sembrò accontentarlo.
Il tempo per il giovane cubano di prendere confidenza con la sua nuova condizione ed afferrare la sbarra in modo da potersi tirare su, che riprese: “Ok. A posto. Grazie”.
“Nulla”, rispose Keith, mentre l'osservava tirarsi seduto sulla traversa e lasciarsi andare nel vuoto fino ad arrivare a ciondolare a testa in giù con le gambe ben salde all'asta di metallo.
Keith ancora non capiva cosa avesse da fare ridotto in quello stato con quel attrezzo, ma la risposta non tardò ad arrivare: lo vide incrociare le mani dietro la nuca, incurante del dolore che lo costrinse a strizzare gli occhi ed a colorare le guance. Rimase così per una manciata di secondi.
“Il tempo di abituarsi”, pensò Keith, ed era proprio così perché dopo poco lo vide riaprire gli occhi, prendere un profondo respiro e cominciare a fare una serie di flessioni. Dapprima lentamente, poi, presa confidenza con il dolore aumentò il ritmo.
“Non dovresti. Non stai bene”, lo rimproverò.
L’altro cadetto si voltò a guardarlo, ma non si fermò. “Naaa!” gli rispose, “Ho due fratelli più grossi di me, e ti assicuro che non è niente… senza contare che… una volta sono caduto… giù per una… scogliera e…” Il dire del ragazzo era spezzettato dal fiato reso corto dall'esercizio. “Quella volta sì che… ero ridotto male. Oltretutto… mi sono ripromesso… di farne almeno tre… serie da trenta… al giorno, tutti i… giorni e le farò… cascasse il mondo!”
Sì, era decisamente testardo a quanto sembrava.
“Voglio diventare… pilota, ma per farlo… non basta studiare… devo passare anche l'idoneità fisica e… sono ancora troppo debole.” Si fermò.
Keith non aveva contato, ma era abbastanza sicuro che quel ragazzino appeso a testa in giù avesse finito la sua prima serie.
“Secondo me ti fai troppi problemi”, commentò, ostentando non curanza.
“E tu troppo pochi”, ribatté immediatamente a tono l’altro.
Keith si sentì scioccamente irritato da quell’affermazione e non perché non fosse vero, anzi era l’esatto contrario ed era proprio quello ad innervosirlo.
Era lì, in quell’istituto, perché una parte di lui voleva dimostrare al resto del mondo (a quel Griffin e a tutti quelli che avevano detto che non avrebbe mai fatto nulla di buono nella vita, per primi) che era in grado di essere migliore, il migliore. Ma alla fine non aveva davvero fatto un granché: era rimasto lì, appeso, proprio come quel ragazzo accanto a lui, aspettando che qualcosa intervenisse a cambiare le cose, perché in verità era lui il primo a non credere in se stesso.
Shiro gli aveva teso una mano e lui… lui cosa ne stava facendo di quell’aiuto?
Il tempo di prendere fiato, contare fino a venti nella sua testa e Lance riprese con una nuova serie.
Keith lì accanto si era fatto silenzioso, nuovamente gettato contro il palo.
“Sai, infondo… non sembri così… male come dicono.”
“Beh, ti sbagli!” rispose rapido e a tono il texano.
“Certo… e allora perché… sei ancora qui?”
“Perché uno stupido ragazzino non saprebbe come scendere da quest’attrezzo ridotto com’è.”
Lance sorrise: Keith si era risposto da solo, anche se lui non era sicurissimo che ci avesse fatto caso.
“Idiota!” Mugugnò infastidito proprio quel Kogane dopo un attimo.
Oh, sì! Ci aveva appena fatto caso, eccome!
Lance finì di contare trenta flessioni. “Finalmente”, pensò. Il dolore era quasi insopportabile, ma non lo avrebbe fermato.
“Non sei costretto a farlo. Puoi andare. Mi farò cadere in terra e striscerò dolorante fino alla mia stanza.”
Keith ancora si trovò a dover trattenere una risata.
“Grazie”, aggiunse quel cadetto con tono gentile, riprendendo le sue flessioni.
“Non ringraziarmi.”
“Sì… invece. Comunque… ormai l’ho fatto… non posso mica… rimangiarmi le parole… dette, no?”
Quel ragazzino sorrideva, malgrado il labbro rotto, sembrava quasi non dispiacersi della sua compagnia e questo era… strano, doloroso in un qual modo.
Le persone di solito lo sfuggivano, non lo cercavano e certo non stavano a perdere tempo in chiacchiere con uno come lui.
Giusto Takashi, anzi Shiro, come preferiva farsi chiamare, sembrava sopportarlo, ma lui era diverso, speciale. Sciocco, per alcuni versi, a credere che, presto o tardi, non lo avrebbe deluso e qualche giorno prima ci era andato davvero molto vicino: come suo responsabile, Shiro si era preso una lavata di capo dalla direttrice a causa di quel pugno.
Non era la prima volta che Keith si azzuffava con altri cadetti, ma James era un ragazzo di buona famiglia e un ottimo studente; il fiore all’occhiello per alunni e insegnanti della sua vecchia scuola e anche lì, alla Garrison, la storia non era certo cambiata.
Era stato sicuro che, dopo quanto successo, Shiro lo avrebbe allontanato; che avrebbe gettato la spugna e preso le distanze, anche lui come gli altri, ma, contrariamente a quello che credeva, gli aveva detto che non avrebbe mollato, che sapeva quanto valeva.
Ma quanto valeva davvero?
Questo Keith non lo sapeva.
“Finito!” Le parole di quel ragazzino lo destarono dai suoi pensieri.
“Era ora”, commentò atono, scostandosi dal palo contro il quale poggiava.
Afferrò l’altro cadetto per la vita, mentre questi, appoggiandosi sulle sue spalle, tornava con i piedi in terra.
Era leggero. Keith Lo aveva già notato alzandolo la prima volta, ma in quell’istante quello stato di cose gli rese ancora più assurdo il pensiero che dei ragazzi più grandi avessero picchiato un ragazzino tanto piccolo.
“Bene. A questo punto tolgo il disturbo. Ci si incontra in giro, Kogane!” salutò Lance pronto da andare.
Attese qualche istante, un po’ per far sì che il sangue tornasse a scorrergli nella direzione giusta del corpo, dopo tutto quel tempo rimasto appeso in testa in giù, un po’ nella speranza che l’altro ricambiasse quel saluto, ma nulla: solo il sangue aveva fatto quanto si aspettava, Keith Kogane invece era rimasto fermo a guardare il terreno.
Era stanco per attendere oltre qualcosa che probabilmente non sarebbe arrivato e forse doveva semplicemente arrendersi all’evidenza: quel ragazzo era fatto così, non sapeva salutare, pazienza!
Si voltò per avviarsi.
“Perché lo hai fatto?” gli arrivò bassa la voce di Kogane frenandolo.
“Perché salutare è buona educazione, ecco perché?”
“Perché sei andato dalla preside?”
“Ah, quello!” Lance fece spallucce. “Perché sarebbe stato il tuo terzo richiamo e ti avrebbero sbattuto fuori dalla Garrison.”
“E a te cosa importa!?” Keith alzò il volto di colpo, gettando in quello di Lance uno sguardo… ferito.
Era stato lui ad avergli fatto male? Come?
“Perché”, riprese, cercando di non far vedere quanto quegli occhi viola l’avessero colpito, “anche se non lo riesci a vedere, tu sei fatto per questo. Forse sono uno stupido, ma sei eccezionale: sembra che non te ne renda conto, ma riesci a fare istintivamente quello che molti di noi hanno bisogno di mesi di allenamento per compiere. Sei nato con le ali Keith, quelle di un caccia, ma pur sempre delle ali.”
“Guarda come ti hanno ridotto, pensi davvero che ne sia valsa la pena?” La voce del ragazzo aveva assunto una nota affranta.
“Le ferite guariscono, Keith”, rispose lui facendo per l’ennesima volta spallucce, “e sì, penso che tu ne valga la pena.”
Il sole stava tramontando, mentre Keith se ne stava ammutolito e confuso a guardare l’altro cadetto. Ma perché diamine gli dava tanto credito?
Non ebbe tempo di rispondersi che le labbra del ragazzino davanti a lui si piegarono in un ghigno presuntuoso, ignorando del tutto la ferita che tornava ad aprirsi.
“Anche se ti capisco”, disse a quel punto con sufficienza, “è normale. Sei intimidito dalla mia abilità. Sai che alle lunghe non hai speranza di vincere contro di me, ma tentare addirittura di farsi espellere per non affrontare la vergogna, beh, mi sembra un pochino eccessivo, anche da uno strano come te.”
“Ma che diamine dici?” sbottò Keith incredulo, difronte a tanta faccia tosta.
“Solo la verità.”
“Quindi, non eri tu il pivello che piagnucolava davanti la bacheca, l’altro giorno, perché ultimo nelle graduatorie.” Non ricordare il nome di quel moccioso non voleva dire che Keith non lo avesse notato sbuffare deluso accanto a quel gigante del suo amico.
“Ops, mi hai visto? Beh, sappi che è tutta una tattica la mia”, disse puntandosi le mani sui fianchi e sollevando il mento con fare altezzoso. “Un bravo stratega non mette subito tutte le sue carte in gioco, lo sanno tutti!”
“Sì, certo”, commentò Keith con tono piatto.
“Mancano ancora due trimestri alla fine del corso. Preparati a mangiare la mia polvere, Kogane!” gridò in ultimo quel ragazzino, volgendosi e correndo via, ridendo divertito.

Era piuttosto tardi quando Shiro rientrò alla Garrison.
Aveva avuto una giornata pesante, ma tutto sommato non era stata tanto male.
Gli sarebbe piaciuto trovare Adam al suo ritorno, ma giustamente il compagno era tornato dai suoi per passare le feste, Keith era stato punito e lui non poteva certo lasciarlo da solo.
La luce nella sala comune di quel settore era ancora accesa, qualche ragazzino se ne stava ancora raggomitolato sui divanetti a chiacchierare nel suo cellulare.
Non era la consuetudine, ma erano rimasti davvero in pochi nell’istituto durante le feste per permettersi di essere troppo fiscali.
Si diresse verso la camera di Keith. Era tardi, questo era vero, ma il cadetto in questione non era tipo da andare a dormire troppo presto e voleva sinceramente sapere come avesse passato la giornata.
Una sciocchezza infondo, ma qualcosa gli diceva che al ragazzino avrebbe fatto piacere e anche a lui, per non trovare due muniti per farlo, malgrado la stanchezza.
Come tutor aveva l’accesso alla stanza e la porta si aprì senza troppi problemi anche se rimase piacevolmente stupito di trovare Keith era alla sua scrivania, chinato sui libri.
Le iridi scure del ragazzino si erano voltate verso di lui non appena la porta si era aperta.
“Scusami se non ho bussato, temevo dormissi e non volevo disturbare”, informò l’ufficiale avvicinandosi.
Keith roteò la poltroncina girevole verso di lui, sorridendogli. “Tranquillo, studiavo.”
“Vedo. Cos’è questa novità? Mi devo preoccupare? Gira qualche strana influenza tropicale di cui non sono stato informato?” Lo prese in giro lui.
“Uff!” sbuffò Keith a quel fare. “Non sei affatto divertente, sai?”
“Lo so”, continuò Shiro divertito, appoggiandosi alla parete proprio accanto a al ragazzino e prendendo il libro degli esercizi dalla scrivania: diversi erano risolti. Shiro era meravigliato anche se evitò di darlo a vedere.
Keith solitamente faceva il minimo indispensabile mentre invece da quello che leggeva non aveva semplicemente risposto, ma aveva addirittura motivato le sue soluzioni.
“Passata una buona giornata?” decise di domandare, sorvolando dall’indagare su quella stranezza e posando il libro sul piano laccato.
“Ahhh!” Keith, tirò su le gambe incrociandole sulla seduta della poltroncina, e per tutta risposta sospirò facendogli alzare un sopracciglio. “È che c’è questo ragazzo del mio stesso corso. È un piccoletto fastidioso con gli blu che sta sempre appiccicato ad un tizio grosso il doppio di una persona normale. Hai presente? È convinto che diventerà il migliore del corso e…”
“McClain?” lo interruppe Shiro, capendo a chi si riferisse, non essendo poi molti i ragazzini selezionati per il corso d’inserimento per i piloti da combattimento. “Ho controllato i suoi risultati, ha dei buoni punteggi.”
“Si ok, ma potresti aspettare che finisca di parlare, Shiro?” Lo riprese piccato. A quanto pareva quel discorso doveva stargli particolarmente a cuore, il che era una bella novità, in effetti. “E vorrei farti notare che il migliore nel corso sono io, non certo questo… Mc-coso?”
“Ti ha sfidato?” chiese ancora, cominciando a intuire cosa potesse essere avvenuto.
“Tz! Sfidato, come se potesse competere con me. Ha solo aperto bocca e gli ha dato fiato. Tutto qui!” Disse stizzito, voltando la testa di lato.
“Capisco, quindi è un tuo amico?” azzardò.
“C…Cosa? Sei pazzo?” rispose di getto Keith, improvvisamente paonazzo, tornando a guardarlo. “Quello è fuori di testa: non ha il fisico per reggere la pressione in alta quota, eppure si ostina a fare quello che gli dice la testa!”
“Mi ricorda qualcuno, sai?” commentò divertito.
“Sì, un idiota”, sbuffò Keith senza riflettere e incrociando le braccia al petto.
“Quindi, in definitiva, hai passato una bella giornata, giusto?” tentò ancora, intimamente divertito da quella situazione e lieto che qualcosa fosse intervenuto finalmente a scuotere quel ragazzino, tanto da prendere in seria considerazione la possibilità che gli aveva offerto.
“Sono in rigore, come posso aver passato una bella giornata, Shiro!” replicò esasperato Keith.

Lance McClain, malgrado i suoi tentativi, non riuscì ad entrare nella classe dei combattenti.
Keith Kogane sì.

“Kogane era il migliore, ma con la notizia del fallimento della missione Kerberos ha dato di matto. È del tutto fuori dai giochi ormai.”
“Chi altro possiamo integrare al suo posto?”
“Griffin è senza alcun dubbio il più adatto. È il secondo del corso e…”
“Uhm…” mugugnò il Comandante Iverson, interrompendo la discussione sulle disposizioni delle nuove squadre.
“Signore?”
“McClain”, annunciò senza troppi giri di parole l’uomo.
“Cosa?” domandò più di una voce.
“Lance McClain del corso cargo”, aggiunse l’ufficiale.
“Un pilota cargo, non saprei”, commentò uno degli insegnanti presenti.
“Il migliore del corso cargo”, ribatté senza incertezze Iverson. “Ha partecipato alle selezioni per i combattenti. Ottimi punteggi, ma ancora troppo piccolo per il corso superiore.”
“Mi ricordo di lui”, commentò un altro dei presenti. “Si era dimostrato più versatile degli altri nel coprire più ambiti e questo gli ha giocato in parte contro. Eravamo certi avrebbe avuto più possibilità in altri settori.”
“Se siete d’accordo vorrei dargli una possibilità”, concluse il Comandante.

“E tu chi sei?” domandò Keith al tizio spuntato dal nulla che parlava di dover essere lui a salvare Shiro e che non aveva messo K.O. solo perché non indossava un’uniforme.
“Chi sono io? Ah… Il mio nome è Lance. Eravamo nella stessa classe alla Garrison”, rispose l’altro deluso come se lui dovesse davvero sapere chi fosse.
“Davvero? Sei un ingegnere?”
“No, sono un pilota!” il silenzio di Keith spinse Lance ad approfondire la cosa. “Eravamo, tipo, rivali. Hai presente, Lance e Keith, testa a testa.”
“Ah, aspetta, mi ricordo di te”, disse Keith accigliandosi. “Tu sei il pilota cargo.”
“Non più ora. Sono nella classe Combattenti, grazie a te che sei stato espulso”, il tono del cubano arrivò irritato.
“Bene, congratulazioni”, concluse l’altro senza alcuna enfasi.
Keith ne era rimasto sorpreso, aveva appena ritrovato Shiro e… Quello era Lance McClain?
Davvero quel ragazzo che lo superava di mezza spanna era quel piccoletto rompiscatole?
Aveva detto cose a caso, non se lo aspettava e la tensione del momento certo non aiutata, ma come poteva non ricordare quel ragazzino?
Senza neanche saperlo lo aveva costretto a darsi una smossa, gli aveva sbattuto in faccia che se voleva dimostrare davvero chi fosse non doveva semplicemente aspettare che le cose cambiassero, avrebbe dovuto fare lui in modo che questo avvenisse.
Doveva dire che era cresciuto parecchio dall’ultima volta che lo aveva visto, una cosa però non sembrava cambiata: chiacchierava ancora decisamente troppo, per i suoi gusti.
“Ok, era un insulto. Ci sono arrivato!”
Keith sorrise, anche l’ironia del ragazzo era ancora tutta lì.
Non sapeva dove lo avrebbe portato quell’avventura nel deserto, ma aveva ritrovato Shiro e con McClain al seguito prometteva di rivelarsi divertente.

Keith, contro le sue stesse aspettative, non rimase meravigliato, quando il Leone Blu che lo aveva chiamato per mesi scelse Lance.