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Titolo: Il ritorno dell’Eroe

Cow-t 9, quarta settimana, M2.
Prompt: “Addormentarsi e sognare
Numero parole: 1844
Rating: Verde
Fandom: Originale

Introduzione:Erano passati… quanti? Dieci anni? Dieci lunghissimi anni in cui aveva temuto che quella guerra non finisse mai, che non sarebbe mai tornato da sua moglie e i suoi bambini”, dal testo.
Genere: Fantascienza, Light-Angst, Malinconico
Coppia: Het (ma giusto perché c’è un bacio =D)
Avvertimenti: Lieve presenza di Tematiche delicate

 

--- --- ---

 

Eçnal era tornato a casa.

Non ricordava l’esatto momento in cui era partito per farlo, ma ricordava benissimo la sensazione che aveva provato uscendo dalla zona d’embargo dello spazioporto. Quella sensazione di familiarità e di distanza, non avrebbe saputo spiegarla diversamente; quella sensazione sulla pelle di qualcosa che sapeva essere parte di lui, ma da cui era stato lontano troppo a lungo, quel… conoscere e non riconoscere al tempo stesso.

 

Era in piedi, fermo sul nastro trasportatore che lo avrebbe portato ai livelli più bassi, quelli dove viveva la sua famiglia.

Mentre scivolava nelle viscere del pianeta, udiva solamente il silenzioso ronzare del sistema magnetico dell’impianto e il parlare confuso degli altri passeggeri giunti con il suo stesso volo.

Nulla di particolare in fondo, ma nel petto avvertiva una serenità che non provava da tempo.

 

Era felice, era questo, mentre guardava in alto la cupola, che divideva il settore dello spazioporto dai fumi velenosi dell’esterno del pianeta, scomparire, inghiottita dal metallo e dal cemento.

 

Respirò a pieni polmoni l’aria, anche troppo pulita, di casa.

Se non si era mai vissuto su un pianeta come Gumper non si poteva capire cosa significasse, essere abituati a respirare solo aria depurata: tutto il resto dello spazio aveva un odore, un “proprio” odore, un odore nauseante al confronto.

Era bella l’aria di casa!

 

Superò il primo livello senza problemi: le luci rossastre provenienti dalla superficie cedevano il posto a quelle limpide e fredde dei led ad adattamento climatico-temporale.

L’orologio del pianeta interno doveva segnare le prime ore della sera, visto che l’illuminazione era tenue e per nulla fastidiosa.

Eçnal quasi aveva dimenticato cosa volesse dire non sentire bruciare gli occhi ogni volta che alzava lo sguardo al cielo e incontrava una luce naturale.

 

 

Superò il terzo livello. Due ragazzi si abbracciavano.

Sorrise.

 

Si domandò cosa avrebbe detto la sua famiglia quando lo avrebbe rivisto.

Erano passati… quanti? Dieci anni?

Dieci lunghissimi anni in cui aveva temuto che quella guerra non finisse, che mai sarebbe tornato da sua moglie e i suoi bambini.

 

Ashala, la sua Ashala!

Chissà se era ancora bellissima come ricordava, chissà se portava ancora i capelli lunghi e se collezionava ancora gattini di peluche?

Sperava davvero di sì, perché altrimenti non avrebbe saputo cosa farsene di quei dieci felini di pelliccia sintetica che avevano richiesto una valigia tutta loro per essere trasportati.

Dieci, uno per ogni anno che era stato lontano. Uno per ogni compleanno perso.

 

E i suoi monelli?

Li aveva lasciati che erano solo dei bambini.

Cercò di immaginarli con dieci anni di più; dovevano essersi fatti due magnifici ventenni.

 

Rasha, la sua principessina, identica alla mamma, bellissima, con i suoi stessi occhi blu e Akante, il suo diavoletto che non riusciva mai a stare fermo: chissà se aveva ancora ogni cosa al posto giusto?

 

Ridacchiò al pensiero.

 

L’ultima volta che si erano sentiti, suo figlio si era quasi cavato un occhio con un ferro da calza per grattarsi sotto il gesso. Già, perché prima di quel piccolo incidente, chiaramente, si era rotto il braccio cadendo… ehm… cadendo dalla rampa per disabili del pronto soccorso dal quale stava uscendo dopo essersi tolto il gesso alla gamba

Akante, il suo distratto e vivace Akante!

 

Per quanto si sforzasse di pensare che fossero bambini come tutti gli altri, Eçnal non poteva accantonare la convinzione che nessuno, oltre lui, avesse dei figli tanto incredibili.

Cielo, quanto li amava e quanto gli erano mancati!

 

Chissà cosa avrebbero detto vedendolo e, soprattutto, “lui” cosa avrebbe potuto dire loro?

Per un secondo sentì mancargli il fiato a quella riflessione: aveva perso i loro anni più belli, ma… avrebbe disertato pur di rimaner loro accanto.

Avrebbe disertato se avesse potuto, se questo non avrebbe significato perderli tutti.

 

Si morse l’interno delle guance a quel pensiero.

 

Servire l’impero era un grande onore.

Venire scelto per essere chiamato alle armi un onore ancora maggiore.

Rifiutare quell’onore voleva dire morire e condannare a morte la propria famiglia.

 

Le risorse imperiali erano sempre state poche e il “gene dell’insoddisfazione” era da sempre considerato troppo pericoloso. La prassi imponeva di debellarlo alla radice in modo che non si moltiplicasse; in modo da orientare i rifornimenti alimentari a bocche che sapessero cosa volesse dire essere un vero imperiale, lavorare per la causa, per il bene del loro popolo.

 

Dieci lunghi anni a servire il suo impero, ma era finita, adesso era finalmente a casa.

 

Un bambino, da uno dei ballatoi del quarto livello, indicò alla madre un disegno sul vetro di protezione del nastro trasportatore.

“Racamon”, disse con infantile tono di scoperta e Eçnal sentì il cuore mancargli un battito.

Si portò una mano alle labbra per trattenere un singulto troppo violento da poter essere frenato altrimenti. Lo sguardo gli si annebbiava, mentre le lacrime scendevano incontrollate a rigargli il volto e il petto sembrava andargli a fuoco.

 

Racamon, farfalla.

“Farfalla” pronunciata nella sua lingua natia. La Sua lingua… non avrebbe mai creduto potesse essere tanto sconvolgente risentirla dopo dieci anni. Non era neanche realmente sicuro di conoscerla ancora. Eppure…

 

Fino a quel momento ogni persona incontrata, dal livello esterno a dove si trovava in quell’istante, si era espressa nella lingua interplanetaria, ma, quel bimbo… che gioia!

Che gioia ricordare chi fosse e da dove venisse.

 

Non credeva possibile riuscire a spiegare a parole quello che aveva sentito esplodergli dentro.

Un’emozione che non lo abbandonò fintanto i suoi occhi non si scontrarono con qualcosa di altrettanto sconvolgente.

 

“Ashala”, esalò il suo cuore nel momento che incrociò gli incredibili occhi dorati di sua moglie cercarlo dal ciglio di deviazione del livello sette.

Ashala”, gridò, correndo ad abbracciarla.

La strinse talmente forte che per un attimo temette di romperla, mentre rideva e piangeva al tempo stesso e… anche lei piangeva.

Non era cambiata per nulla, era bella esattamente come la ricordava, anzi no, più bella. Incredibilmente più bella adesso che la stringeva tra le braccia.

 

Non avrebbe saputo quantificare per quanto tempo l’avesse tenuta contro il suo petto. Quando l’aveva lasciata, però, aveva incontrato gli occhi di due giovani gamperiani; occhi talmente cari e luminosi da non dargli dubbio a chi appartenessero.

I suoi bambini. Si erano fatti così grandi, così belli!

Rasha era diventata incantevole proprio come prometteva da bambina e Akante aveva ancora tutti gli arti e tutti e due i suoi occhi gialli al posto giusto.

Ironizzo incapace di non dare spazio alla sua innata ironia anche in momenti come quelli.

 

Li strinse forte e anche loro piansero.

 

Aveva temuto di non sapere come comportarsi, di non sapere cosa dire e invece… invece non erano servite parole. Erano lì, nuovamente insieme, e quella era l’unica cosa che importasse davvero, l’unica di cui avessero realmente bisogno.

 

Accarezzava il viso di sua figlia, sperando di vedere altro di lui in quei lineamenti ormai adulti, altro della sua Ashala, quando proprio la voce di sua moglie lo richiamò teneramente all’attenti.

Trovò a fatica il coraggio di lasciare andare i suoi figli, ma…

“Ian, c’è un’altra sorpresa”, disse lei con la quell’incredibile voce di velluto e miele, prima che…

“Ian”, chiamò una nuova voce; una voce fatta di ricordi lontani, di sandwich al formaggio, e di nottate insonni accoccolati in un fortino di coperte e cuscini. “Ian”, ripetè quella stessa voce sul limitare del pianto, mente lui si voltava e scattava una corsa verso quel dolce suono.

“Sally”, chiamò con la voce strozzata in una gola improvvisamente troppo stretta, mentre lei lo abbracciava come non accadeva da tempo.

 

Sua sorella, la “sua” sorellina era lì ed era…

 

Il cuore gli si fermò di colpo nel petto e gli occhi sgranati cessarono di versare lacrime, mentre osservava quel visetto da adolescente e quel corpicino esile che stringeva tra le braccia; quelle stesse braccia che perdevano forza e vitalità quasi gli avessero troncato ogni singolo legamento.

 

“Sally”, ripeté. Gli occhi ripresero a piangere calde lacrime, mentre la gioia e la commozione venivano surclassati dal sentimento opprimente della nostalgia e del dolore; mentre Eçnal sollevava la mano ad accarezzare quel viso di porcellana con la delicatezza di un bambino che collezionasse bolle di sapone.

Si perse nel riflesso di quegli occhi così simili ai suoi da confondercisi ed… ecco arrivare i ricordi.

 

Quel mazzo margherite bianche abbandonato nello spazio.

L’incendio.

Il sorriso di Sally violentato dal fuoco.

 

Lasciò scivolare tra le dita una lunga ciocca dei capelli d’argento della sua sorellina, perdendosi nel ricordo di quella sensazione unica.

La lasciò andare solo per tornare a stringere sua moglie, per baciarla come non ricordava di aver mai fatto, mentre la consapevolezza si faceva sempre più forte in lui; mentre tentava di rimarcare il ricordo della sua pelle di pesca, dell’odore dei suoi capelli e di quel riflesso rossiccio che le si scorgeva nello sguardo, quando gli occhi le si adombravano d’incertezza, come in quel preciso momento.

 

“Ian, cosa…?”, chiese lei sul filo della disperazione.

“Ian”, ripetè lui con tono pacato, sorridendole con dolcezza e nostalgia, annuendole per rassicurarla, “è questo il mio nome adesso, ma tu…”, la voce tentennò, uscendo a fatica, “…tu, amore mio, tu… non puoi conoscerlo.”

 

La strinse ancora e ancora sentì chiamare il suo nome, il suo nuovo nome, mentre Ashala spariva tra le sue braccia come fosse diventata improvvisamente di nebbia e fumo. 


Ian, maledizione!” Gridò la voce del suo comandante riportandolo indietro e Ian aprì gli occhi.

La fuliggine e il calore gli briciavano lo sguardo.

“Hai preso una bella botta, amico!” commentò il soldato che lo sorreggeva. “Per un attimo ho creduto che non saresti tornato.”

E solo il cielo sapeva quanto Ian avrebbe voluto dirgli che non sarebbe tornato, ma… un’esplosione troppo vicina allontanò da lui gli ultimi fumi del vaneggiare.

 

Setha, il suo capo squadra, lo trascinò dietro un cumulo di macerie.

“Qui dovremmo essere più coperti”, l’informò, mentre lui si passava una mano sulla fronte, ritraendola sporca di sangue.

“Un bel taglio”, commentò Ian a sé stesso, prima di rammentare cosa stessero facendo lui e Setha in quel posto.

 

Imbracciò il fucile di precisione e “Dammi le coordinate dell’esplosivo che hai piazzato, capitano. Ti giuro che, detonatori o meno, arrostiremo a dovere i culi di quegli imperiali.”

“Ben tornato, amico!” ironizzò Setha, attivando il sistema d’orientamento olografico.

 

Le direttive che seguirono servirono solo a ricordare a Ian che combatteva dall’altra parte della barricata adesso, che era un Alleato; che gli era stato portato via tutto quello che amava e… mentre brandelli della linea di difesa dell’avamposto nemico saltavano letteralmente in aria a ogni suo colpo sparato, gli occhi gli si incollarono su tramonto rosso che filtrava invadente attraverso le polveri e il fumo delle esplosioni, tingendole d’oro e arancio.

 

Sorrise, prima di sparare il suo ultimo proiettile.

Sorrise mentre il rosso dell’esplosione si mescolava al colore del crepuscolo ad un passo dalla conclusione dello scontro.

Soprattutto, sorrise perché era sera: tra breve sarebbero terminate le offensive. Le temperature notturne del pianeta avevano la pessima abitudine di precipitare catastroficamente, rendendo qualunque tecnologia in campo aperto inutilizzabile e qualunque forma di attività impossibile.

 

Sorrise, perché con il buio avrebbe potuto addormentarsi e tornare a sognare.

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